“Quello che voi rappresentate per loro, è la libertà.” (George Hanson)
Aveva ragione Mr. Obama quando diceva che l’italia ha fatto passi impressionanti… nel senso che, politicamente parlando abbiamo fatto schifo (o impressione) anche alla repubbliche della banane (il nostro commercio delle sigarette è stato rifiutato pure del famoserrimo Joe Banana di Beverly Hills Cop); ma se Obama, ragionando per assurdo, avesse parlato di altro?!
Di musica seria per esempio?! Ci tengo a sottolineare seria perché, dopo l’ultimo festival della canzone italiana dove tutti sappiamo che ha vinto la Butterfly (non quella di Puccini che credo avrebbe avuto qualche difficoltà a ritirare il premio), la spaccatura tra musica italiana e italiani in musica è sempre più evidente.
Ma in questo caso non è propriamente necessario volgere lo sguardo oltre oceano per chiudere gli occhi e sentirsi un Americano DOC.
Sto parando degli SMOKEY FINGERS; quartetto lodigiano che si è meritatamente preso la liberta, appunto, di partorire un album senza mezze misure. Immediato, preciso, energico e fottutamente Southern. Dico southern perché è la categoria più ampia e generica nel quale collocare questo figlio della Tanzan Record che, con la opener, “Old Jack” inizia già a testa alta dando un’idea di quel che ci sarà più in là.
Se entriamo più nel particolare le sfumature di track tipo “Born to Run”, “Over the Line”, “The Good Countryside” lasciano in bocca il sapore di whiskey e sulla pelle la polvere della Mother Road Route 66, con i loro suoni country rock. Non stiamo parlando di suoni melensi fuoriuscenti dalle palude dell’Alabama (che comunque rispetto).
Versatili e fumanti, dalle dita mai ferme gli SMOKEY FINGERS propongono anche pezzi heavy rock anni 70/80 nelle performanti di “The Lover”, “Chains of Mind” e “Die for the Glory” fanno proprio venire la voglia di inforcare il bolide in copertina e ,sempre dalla copertina, seguire quella strada fino il tramonto, roadhouse by roadhouse.
La voce di Luke (Gianlica Paterniti), frontman del gruppo, ricorda passaggi alla Molly Hatchet e qui lo chapeau è quasi un must. Fabrizio Costa (basso), Daniele Vacchini (batteria) e Diego Dragoni (chitarre) ce la mettono tutta in 12 tracce da ascoltare appieno, viaggiando sulle orme di Blackberry Smoke o Pat Travers, tanto è vero che omaggiano pure un certo Signor James Taylor.
A mio parere a rendere completamente perfetto questo disco, ci sarebbero state bene un paio di “boffate” qua e là di armonica, ma questo non incide sul risultato finale di un album potente ed evocativo come questo “COLUMBUS WAY” che, anche nel finale, con “Crazy Woman” e “Devil's Song” mantiene lo spirito alto.
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