Appendete le orecchie ai manici dei vostri ombrelli, sarete investiti da una pioggia di suoni elettrici e sconsiderati!!
Queste tracce di ispirazione "dadaista" costituiscono a mio parere il momento musicale più innovativo della Soft Machine.
Siamo nel 1969. Il pubblico dell'Ufo di Londra sta trovando il suo alfiere psichedelico nel giovane Syd Barrett e il gruppo di Wyatt si alterna con le esibizioni dei Pink Floyd su quello stesso palco e in quegli stessi anni. Il rischio è che però tutta la scena rock dopo la morte senza resurrezione degli ultimi Beatles si popoli di visionari traghettatori che pur di sventolare la bandiera dell'originalità a tutti i costi perdano i contatti con la dimensione musicale dalla quale attingere per creare cose nuove.
Da questo variegato mondo sotterraneo emergono i Soft Machine, musicisti di formazione jazzistica della cosiddetta "scena di Canterbury". In primiis caratterizzati da una tecnica musicale elevata e dal gusto per la sperimentazione. Ma sono anche ricordati per l'utilizzo del sax tenore e soprano in una formazione rock, per gli arrangiamenti complessi associati a rumoristica ed effetti sonori disturbanti e per l'ironia dei testi in stile Frank Zappa che troveranno il loro apice nei magnifici Gong di Daevid Allen (ex Soft Machine).
Veniamo a noi. Quello che mi piace di questo disco rispetto al successivo Third idolatrato e magnificato da tutti è il fatto che la musica è indiscussa protagonista e la voglia di stupire è presente ma tenuta sotto controllo come la cloche di un aereo durante le più spettacolari acrobazie.
I brevissimi brani "Pataphysical Introduction - part I e II" hanno echi di Rithm and Blues e suonano moderni quanto un brano di acid jazz di un musicista nero. Non è casuale nel II la citazione dei fiati di uno standard jazz famosissimo "These Foolish Things". La capacità di questo gruppo di attingere al passato, rielaborarlo e addirittura stravolgerlo è più viva che mai. Ci sono intermezzi godibilissimi come "A concise British Alphabet" in cui si recita l'alfabeto scandito dalla voce divertita di Wyatt che qui ancora non ha le tinte fosche dei suoi futuri album solisti. Si passa dai cambi di tempo di "Hibou, Anemone and Bear" forse più tipica anticipatrice del classico "prog rock" agli arrangiamenti vocali di "Dada was Here" e "Have You Ever Bean Green?". In particolare quest'ultima a mio parere è un capolavoro di intrecci melodici, armonie sospese e improvvisi stacchi ritmici apparentemente insensati il tutto in neanche 1 minuto e 20 secondi di musica.
Spendo anche una parola sulla giustamente celebre "Dedicated to You But You Weren't Listening". Chitarra acustica e voce: da rimanere senza parole. Ascoltatela e ditemi se pensate ancora che per essere originali servono sintetizzatori, grida e batterie iperveloci (non voglio fare polemica con i fan dei Dream Theatre, ci mancherebbe). I brani di Ratledge "Orange Skin Food" e "A Door Opens and Closes" sono sicuramente quelli di impronta più fusion, filone che poi si svilupperà dopo il terzo album con la sua conclusione nel 6 e 7 volume.
A mio parere questo è il disco più interessante pur amando molto tutta la discografia del gruppo. Wyatt è molto ispirato ed è un ottimo cantante. Artisticamente qui raggiunge il suo apice per poi perdersi un po' nella sperimentazione fine a se stessa in Third e andare verso un lento declino negli anni successivi. D'altra parte però bisogna dire che pur perdendo sotto il profilo dell'originalità i Soft Machine si sono affinati sempre di più negli anni settanta come musicisti di prim'ordine. In particolare apprezzo davvero molto la capacità di comporre musica originale strumentale mescolandola all'improvvisazione jazz e alla canzone pop. Bisognerebbe interessarsi a queste rare realtà musicali in un'epoca ricchissima dal punto di vista dell'immagine ma poverissima dal punto di vista della ricerca sonora e musicale.
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