Dopo un'incredibile debutto come "Steelbath Suicide" e un gioiello di swedish death metal "The Chainheart Machine", i Soilwork si preparano alla triplete. "A Predator's Portrait" oltre ad essere il terzo ottimo lavoro del combo svedese, rappresenta il punto di svolta nel sound, che si fa sicuramente meno furioso, ma più complesso e raffinato, con una leggera apertura verso territori più "easy listening".
Con questo non si può assolutamente dire che "A Predator's Portrait" apra il ciclo commerciale della produzione della band, anzi, forse il suddetto era la giusta evoluzione, la coordinata da seguire per approcciarsi verso sonorità moderne senza snaturarne il sound. Ma ciò non accadde, e come tutto voi sapete i Soilwork invece di progredire in questa direzione, si gettarono a capofitto nel calderone dell'inclassificabile "swedishdeathemohardcore etc etc", rinunciando per sempre alla porpria originalità di artista.
Con "A Predator's Portrait" c'è da dire però che Strid e soci si tramutano nell'anello mancante tra il thrash/death svedese degli anni 90 (At the Gates, In Flames) e le sonorità "core" tanto in voga negli ultimi anni. Purtroppo da precursori nel giro di qualche anno, si fanno disperati inseguitori del trend, e così quando le giovani leve (Killswitch Engage, Trivium e tutto il filone del NWOAHC) escono a fare da headliner nei festival europei, i vecchi Soilwork si trovano tristemente a fargli da spalla. Non basta aver inserito gli assoli melodici e le voci pulite nel ritornello per emergere, e così la continua ricerca di personalità spinge la band a produrre album scialbi piatti e incocludenti svilendo e semplicizzando sempre di più il propio sound alla ricerca disperata del botto nel mainstream mondiale.
"A Predator's Portrait" è un concept album, che ricalca la storia di un serial killer, la cui mente distorta viene raccontata musicalmente con la tipica violenza del thrash death del combo svedese, che seppure ancorata allo stile degli esordi riesce anche a ricreare momenti suggestivi grazie a un dosaggio maggiore di melodia, un corposo utilizzo di tastiere, e una sferzatina verso sonorità progressive. I brani rallentano ed emerge una spiccata versatilità di tecnica e songwriting; l'uso della voce pulita ancora poco adoperata nel death metal, appare ancora una novità, e rende più maturo e fresco il sound proposto dai 6 di Gothebourg.
Forse perchè i primi, forse perchè proprio una novità nel 2001, ma i ritornelli orecchiabili e accattivanti rendono l'album unico, melodico e potente in equal misura, con i quali l'alternarsi di canzoni vecchia scuola (Bastard Chain) vanno perfettamente a braccetto con brani più moderni come "Like the Average Stalker" e "Needlefeast", tra i migliori che il combo svedese abbia mai partorito. L'album si mantiene nel complesso su altissimi livelli ("Neurotica Rampage", "Grand Failure Anthem") senza segni di cedimento fino alla lunga titletrack di chiusura (che tra l'altro annovera come guest Mikael AKerfeldt degli Opeth).
Sperimentare o no? Qual'è la linea di demarcazione tra lo sperimentare e rimanere credibili e il cedere alla tentazione di raggiungere un pubblico più amplio? Ma poi i cambiamenti di rotta portano sempre ad un maggiore responso? Se un gruppo estremo ammorbidisce il proprio sound qual'è la certezza di raggiungere un porzione più larga di pubblico?
Ovviamente nessuna, e nel caso dei Soilwork non solo troviamo ad un certo punto della carriera una snaturazione del proprio sound, ma anche una carenza di attenzione verso la loro proposta subito dopo l'uscita di questo (seppur ottimo) "A Predator's Portrait". Un album da rispolverare, obbligatorio soprattutto per i metalhead della mia generazione, se non altro per immaginarsi cosa avrebbero potuto regalarci negli anni a venire : sicuramente qualcosa di meno insulso, inoffensivo, e scialbo, come "Stabbing the Drama" , "Sworn to a Great Divide" o l'ultimo agghiacciante "The Panic Broadcast".
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