Parte prima: "La mia prima volta con Tony..."

30 marzo 2007, Siddharta: Sol Invictus in concerto. L'attesa è stata lunga ed agognata, ma alla fine adeguatamente premiata. E quando si apre il sipario, è fra lo sgomento e l'esaltazione che si materializza in tutta la sua imponenza il colossale Wakeford, gilet e chitarra alla mano, seduto in punta di culo su un pacchettino che non si capisce bene come faccia a sorreggerlo. L'impressione è quella di avere ad un metro e mezzo di distanza un cetaceo estinto riemerso da mari ancestrali.

Impressionanti anche i suoi compagni di ventura, una serie di personaggi dalla sessualità e dall'età indefinite che, messi uno accanto all'altro, vanno a comporre un quadretto che pare di essere in Guerre Stellari davanti a Jabba e il suo harem. Non ci sono Matt Hodwen, Eric Roger e Karl Blake, e la differenza si sente: il violino manco l'hanno portato, e concepire i Sol Invictus di oggi senza violino è un po' come cercare di immaginare Rocco Siffredi senza il cazzo. Al posto dell'immenso Roger troviamo invece un timido flautista che spiffeggerà tutto il tempo, bravo, senza dubbio, ma anche alquanto anonimo: di certo il suo strumento, stasera, non sarà cagione di memorabili emozioni per noi. Quanto al basso, pare che si siano dimenticati di collegare lo spinotto all'amplificatore: abituati alle ruvide spennellate del carismatico Blake, il muto diteggiare di Caroline Jago (dei 7th Harmonic), sembra propagarsi attarverso frequenze che le nostre orecchie non possono percepire. Sull'ala sinistra, invece, troviamo Lesley Malone alle percussioni ed agli effetti sonori (qualche dronetto qua e là, ma niente di speciale) ed Andrew King alla voce ed alle percussioni, ma di lui parleremo successivamente.

Tornando a noi, beh: il tutto parte in quinta con due ultra-classici, "Abattoirs of Love" e "Media": con le lacrime agli occhi, mi dico "stasera fanno tutto, fanno tutto!" In realtà, la scaletta verrà principalmente incentrata sull'album di prossima uscita, presentato in anteprima, di cui francamente non so un accidente. A dimostrazione che il Tony è (o almeno si considera) ancora un artista vivo e vegeto, rifiutando di accomodarsi definitivamente sui classici immortali (che, detto per inciso, avrebbero fatto la mia gioia). L'esibizione comunque scorre che è una bellezza, fra il fascinoso e il soporifero. In entrambi casi ci aiuta il tasso alcolico nelle vene, che amplifica i momenti topici e aiuta a meglio digerire i passaggi più monotoni. I suoni sono puliti, cristallini e ben equalizzati, mentre l'esecuzione è impeccabile: i pezzi sono elegantemente arrangiati, mentre stupisce in positivo la voce di Wakeford, che non sembra avere momenti di cedimento, rivelandosi, incredibilmente, più solida ed espressiva che su disco.

Ne viene fuori un concerto fuori dal tempo, fantastico nel suo incedere e dalle atmosfere stranianti, fra il sognante e il decadente. Spazio zero alle incursioni rumoristiche che avremmo potuto attenderci, ma grandi impennate epiche a destarci, di tanto in tanto, dalle ambientazioni pacate ed intimistiche che primeggiano in questa uggiosa serata di primavera. Impossibile per me ricostruire con fedeltà la scaletta (un po' per le condizioni psicofisiche, un po' perché molte canzoni mi risultano pressoché ignote): da segnalare senz'altro gli estratti da "The Devil's Steed" (l'ottima "We Are the Dead Men", ormai di diritto un classico, con il ritornellone da cantare a squarciagola!, e la suggestiva "Old London Weeps", purtroppo privata dei sublimi intrecci di violino e tromba che l'avevano animata su disco), mentre a testimoniare i fasti del passato troviamo l'immancabile "Sheath & Knife", la leggendaria "Angels Fall" (per il sottoscritto l'apice della serata!) e "Black Easter" (in una versione diversa da quella presente in "Lex Talionis" ma molto, molto bella). Da "In the Rains" invece, sono pescate la struggente "Believe Me" (altro grande momento!) e "An English Garden". Azzardo l'ipotesi che ad un certo punto sia stata eseguita anche l'epica "Sawney Bean" (da "Trees in Winter"), ma non ci giurerei, dato che dal vivo i pezzi tendono a confondersi inquietantemente fra loro.

Quanto al nuovo materiale, che dire: il sound dei Sol Invictus è evidentemente sempre più orientato verso un folk più canonico, più tradizionale potremmo dire, e meno legato ai cliché del folk apocalittico, che a suo tempo Wakeford ha contribuito a forgiare. Degna di nota la suggestiva sezione centrale in cui il comando della nave è stato preso dal carismatico Andrew King, una sorta di Eddie Vedder invasato, che ha notevolmente innalzato il tasso epico della serata con le sue epiche declamazioni baritonali, facendo ben sperare per il futuro dei Sol Invictus. Quanto a Tony, stupisce trovarselo così timido ed indifeso innanzi alla platea deliziata: i suoi "thank you" appena sussurrati costituiscono le sole parole dirette ad un pubblico affamato di emozioni e di un contatto diretto con il proprio idolo, e quasi fa tenerezza vedergli accennare timidi sorrisi in risposta alle ovazioni dei presenti estasiati.

Bravo Tony!, ancora a giro per il mondo a suonare per i quattro scemi che ti vengono a vedere: finché c'è gente che suona con il cuore come te, la musica avrà un senso!

Parte seconda: "Sol Invictus VS Current 93 VS Death in June"

Bene, ora che ho avuto l'onore di vedere dal vivo la triade storica del folk apocalittico al completo, mi voglio permettere un fugace quanto arduo confronto fra l'impatto live delle tre entità musicali.

Al terzo posto della mia classifica personale si colloca certamente Tony Wakeford, il più canonico dei tre: pesa sul giudizio il fatto di essermelo beccato con una line-up non proprio al top. E certo una scaletta improntata su un album non ancora uscito non aiuta. Ad ogni modo Tony resta un onesto, un sincero portatore di emozioni e suggestioni, uno che crede in quello che suona, oggi come venti anni fa: sempre più solitario e fuori dal tempo, è perfettamente in grado di sopravvivere con il suo solo carisma all'avvicendarsi perpetuo e nefasto delle mille line-up! Fedele alla linea.

Il secondo posto, invece, spetta di diritto ai Current 93, visti lo scorso anno in quel di Ravenna durante il tour promozionale di "Black Ships Ate the Sky": Tibet, piedi scalzi e leggìo, si porta appresso la carovana al completo (Joolie Wood, Maya Elliott, John Contreras, Simon Finn, Baby Dee, William Breeze, Matt Sweeney, Ben Chasny) e lo spettacolo che è in grado di allestire è davvero notevole. Silenzio in sala, clima di religiosa attenzione (se non devozione), e, come se vagasse per un altro mondo, si aggira per il palco spoetando, strillando con la sua voce acidula, e, all'occorrenza, compiendo gesti scoordinati per aumentare il pathos di certi passaggi. Ovviamente piena di sentimento la sua interpretazione e i pezzi, dal vivo, acquisiscono nuova vita, si dilatano, sembrano finalmente respirare.

"Purtroppo", come Wakeford, Tibet è uno che crede in quello che fa, e quindi non esiterà a riproporci gran parte di "Black Ships Ate the Sky" (ovviamente all'epoca non l'avevo ancora ascoltato, ottimo comunque anche ad un primo impatto), scippando però tempo prezioso ai classici che hanno fatto la fortuna della band. Se poi consideriamo che il repertorio precedente a "Thunder Perfect Mind" è stato praticamente rinnegato dall'artista, capiamo che di certo l'evento non è all'insegna della nostalgia. Per la serata dovremmo quindi accontentarci di fugaci stralci da "Soft Black Stars" e "Sleep Has His House". Un fulmine al ciel sereno è invece la riproposizione inaspettata della fantastica "Bloodbells Chime" (da "All the Pretty Little Horses"), mentre a testimoniare il passato più remoto, ci sono solo l'incipit di "Black Flowers, Please" e "The Blue Gates of Death", posta in chiusura. Ora, io non chiedo certo pezzi come "Maldoror is Dead" o "Falling Back in Fields of Rape", ma con tutte le superbe composizioni che negli anni i Current hanno saputo regalarci, qualcosina in più sarebbe stato lecito aspettarsela, soprattutto per chi macina chilometri e se la mena per settimane per accaparrarsi biglietti che proprio sotto casa non si trovano. Ad ogni modo, in religioso silenzio ci adeguiamo a quanto voluto da Lord Tibet. Le emozioni sono tante, tantissime, e ci consola il fatto che quando si parla di Current 93 si parla di arte al di fuori di ogni logica commerciale, cosicché l'evento live non finisce per limitarsi ad una meccanica riproposizione di ciò che il pubblico si aspetta (come se il musicista andasse ad onorare un contratto con il proprio cliente), ma diviene un momento magico di intima comunione fra spettatore ed artista. E così è stato. Irraccontabile.

Al primo posto, strano ma vero, troviamo i Death in June e quel "finito" di Douglas P. In molti sono a sostenere che il tour di "All Pigs Must Die", nel 2002, si sia rivelato alla fin fine di una noia pazzesca, soprattutto se raffrontato alle precedenti e ben più pittoresche comparsate con a fianco l'abile Albin Julius. Per quanto mi riguarda, devo dire di essere rimasto estremamente soddisfatto. Anzitutto è una vera gioia assistere all'ingresso di Douglas P., con tanto di mimetica e maschera, che sventola solennemente il bandierone nero con raffigurato il Totenkopf.

Palco sguarnito, James Murphy in un angolo dietro ad un kit di batteria da asilo nido ad occuparsi delle percussioni, e il Nostro a sua volta a picchiare su tamburi ed aggeggi vari: è l'apice del minimalismo, quasi si rasenta il teatro dell'assurdo. Eppure rendono bene i brani rappresentanti il primo periodo della band, e parlo di "Till the Living Flesh is Burned", "Death of a Man" e "C'est a Reve".

Fine della prima parte: Douglas esce di scena, e ricompare fra gli applausi abbracciando la sua chitarra e indossando il provverbiale copricapo con le stricioline che pendono dalla visiera a coprirgli il volto. La scaletta sarà un'ampia carrellata dei brani più celebri della Morte in Giugno, da "Death of the West" e "Behind the Rose (Fields of Rape)" fino agli estratti di "All Pigs Must Die". Passando naturalmente per "She sayd Destroy", "Runes and Men", "Fall Apart", "Little Black Angel", "Ku Ku Ku", "Rose Clouds of Holocaust", "Kameradschaft" e chi più ha più ne metta. I pezzi si sussuegono brevi, scarni e perfettamente identici fra loro, incalzati solamente dai colpi secchi di Murphy, e spogliati perfino di quei pochi orpelli (trombette, flautini, pianofortini ecc.) che li avevano arricchiti su disco. Di tanto in tanto verranno introdotti dalle oscure parole di Boyd Rice (i suoi NoN avevano aperto la serata), che si avvicenda svogliatamente fra palco e banchetto dei cd.

Douglas è comunicativo come un ologramma, ma va bene così, non ci sorprendiamo, fa parte del personaggio, anzi della persona. E dopo un po' la situazione inizia ad essere straniante (fondamentale, beninteso, l'apporto dell'alcool): parte il solito arpeggio, parte la solita voce, parte il solito ritmo di batteria, sembra di essere progionieri di quegli incubi in cui la stessa situazione si ripete continuamente. Eppure, quella figura grottesca, solitaria, immensamente distante, sul palco, è lì che calamita l'attenzione di tutti, forte del suo carisma, del suo intrinseco magnetismo. Come su disco, Pearce sembra parlarci da un altro mondo, e sta tutto qui il suo fascino.

Altra uscita, e poi ultima comparsata per i bis. Impacciato, occhialuto, con il volto finalmente scoperto, come se dopo un'ora e mezza avesse istaurato la giusta confidenza con il pubblico, ci ringrazia con due parole ed chiude con "Heaven Street". Nonostante tutto, il migliore.

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