Altrove ho sostenuto che di veri e propri capolavori i Sol Invictus non ne hanno partoriti. E se ho dato 5 stelle ad "Against the Modern World" è più che altro per il valore storico che tale EP riveste, sia per la band che per il genere intero (un po' come le 5 stelle che possiamo attribuire a lavori come "Scum" dei Napalm Death e "Deathcrush" dei Mayhem). E se mi ritrovo adesso a dare 5 stelle a questo "In a Garden Green", non è perché ci troviamo innanzi ad un vero capolavoro, bensì per dare il giusto tributo ad un artista come Wakeford e al talento degli eccezionali musicisti che lo accompagnano oramai da tempo nella sua crociata contro il mondo.

Il violino incantato di Matt Hodwen, la tromba dolente di Eric Roger, il basso distorto di Karl Blake, le voci fantastiche di Sally Doherty e Jane Hodwen raggiungono qui vette sublimi, si fondono in miracolosi intrecci, si ritagliano sprazzi di protagonismo, accompagnano e sorreggono fino ad oscurare l'ingombrante ego del corpulento mastermind.

"In a Garden Green", esce non a caso nel 1999 ed è senz'altro figlio delle esperienze maturate in seno a L'Orchestre Noir, che è richiamata costantemente alla mente per la sontuosità degli arrangiamenti, per la ricchezza delle soluzioni, per la cura dei suoni. "In a Garden Green" viene così a rappresentare la perfezione formale dei Sol Invictus, il luogo in cui tutti i tasselli trovano finalmente una felice collocazione e in cui si conquista un'armonia da tempo ricercata e solo adesso pienamente raggiunta.

Ho infatti sempre rinvenuto negli album dei Sol Invictus un costante altanelare fra episodi ben riusciti ed altri più anonimi, o comunque, non sufficientemente incisivi. Più che altro ho sempre sofferto una certa monotonia di fondo, dovuta alle carenze compositive ed esecutive dello stesso Wakeford, a cui va certamente riconosciuto un talento indiscutibile, soprattutto per aver saputo forgiare un sound innegabilmente personale, suggestivo e ricco di visioni, ma a cui non si può non attribuire evidenti limiti, sia come artista che come musicista.

Per questa ragione mi ritrovo ad amare "In a Garden Green", proprio perché Wakeford è meno presente del solito. Salda la sua mano al timone della nave, egli sceglie di ridimensionare il proprio straripante protagonismo e lasciar parlare l'estro artistico dei suoi validi collaboratori. E così, più regista che primo attore, Wakeford è in grado di allestire l'opera della sua maturità, un'opera sentita, intima, paradossalmente la meno apocalittica della sua carriera. I toni epici ed irrequieti che hanno contraddistinto i lavori precedenti, si vanno di fatto a smorzare in un mood malinconico e vagamente nostalgico. E non è un caso che l'album sia dedicato ad una certa Elsie Kate Wakeford, che dalla foto (una donna che gioca con un bambino) deduco essere la madre dello stesso Wakeford. L'album costituisce infatti un viaggio a ritroso nel tempo alla riscoperta della dolcezza e dell'innocenza dell'infanzia. E l'immagine del giardino viene a rappresentare un luogo di quiete, di giochi, di spensieratezza. Una serenità purtroppo perduta per sempre, oggi irraggiungibile, ma che sopravvive nei ricordi e nella cui dolcezza lo spirito naufraga e trova conforto.

I brani si susseguono armoniosi e compongono un viaggio intimo e fantastico, fra sognanti divagazioni pinkfloydiane e sprazzi di spudorato romanticismo in stile Cure. Un viaggio attraverso i paesaggi uggiosi e desolati di "Europa" e i prati freschi e soffici di "Song of the Flower", un cammino che si tinge di nero con le oscure nenie di "O Rubor Sanguinis", e che si ammanta di sacro con le sublimi evoluzioni canore di "Ave Maria". Momenti di tensione si intervallano a fisiologiche pause riflessive, come la malinconia di "The Praties Song", in un contiuum emozionante che non lascia mai spazio alla noia o all'irritazione.

La chitarra di Wakeford è un lontano strimpellare, subissato dagli archi, dai fiati, dai cori femminili e dagli inserti di elettronica minimale, mentra la sua voce diviene protagonista in soli quattro brani, e per questo si fa ancora più apprezzare. E' il risveglio mattutino di "Come the Morning", i nove fantastici minuti della title-track, senz'altro l'apice emotivo dell'opera, il canto dolce e quasi morriseyano di "No One". Ma a riportarci ai veri Sol Invictus è la conclusiva "Europa Calling", che riprende il tema di "Europa", e ci riconsegna il Wakeford più cazzutamente apocalittico: "We are all brother, Cain and Abel" sono le inquietanti ed ambigue parole con cui si chiude questa opera struggente e sofferta.

"In a Garden Green" è un album che pur suonando al 1000% Sol Invictus costituisce un episodio atipico nella storia della formazione: esso ci mostra un lato inedito di Wakeford, esso sembra costituire una tregua, un bisogno di umanità, una crepa nel mondo cinico e disincantato che da sempre anima la poetica dell'artista.

Consigliato non solo ai fan del gruppo e del genere, ma a chiunque ami il dark e la musica gotica, e più in generale le atmosfere sognanti e malinconiche.

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