Ed ecco che alla fine anche lui ce la fa a calcare gli agognati lidi di Debaser: signore e signori, Tony Wakeford, il più cazzuto dei folkettari apocalittici, quello che suonava il basso nei Crisis e poi nei Death in June, quello che mandò affanculo Douglas Pearce, poi prese il basso, lo buttò nel cesso, imbracciò una chitarra e fondò i Sol Invictus.
Fiero, agguerrito, lui solo contro tutto e tutti. Una leggenda.
Tony è un pessimista universale, sa che la Fine è inevitabile (altrimenti che folkettaro apocalittico sarebbe??), sa, come uomo, di essere sconfitto in partenza, non si culla certo in illusioni Tony, anzi, non gliene frega proprio un cazzo: in culo alle avversità, non si abbandona certo a piagnistei, tira dritto per la sua strada, e si espone imperterrito agli schiaffi avversi del destino, non si piega e non si spezza, e in piedi rimane, niente lo smuove (e chi, del resto, ci riuscirebbe?, peserà duecento chili!).
Tony ha solo un problema (oltre alla linea): il mondo moderno. E proprio contro di esso porta avanti la sua crociata, con coerenza e determinazione, con la rabbia di chi è incazzato veramente e di chi sente salire alla gola l'indignazione e il dolore lacerante che nascono dall'umiliazione e dallo sconforto innanzi all'arroganza e alla stupidità imperanti.
Fiero, come si diceva, ma anche con una lacrimuccia che gli solca la guancia, come succede al prode guerriero che cavalca ostinato contro il vento (tanto, per i capelli che gli sono rimasti, non c'è pericolo di spettinarsi) sapendo di andare incontro a morte certa. Cosa tragica in sé e affatto indolore, ma accettata come necessaria, perché è la Causa che conta.
Inverno, un quieto campo di battaglia, il sibilare del vento, le armi insanguinate sparse in disordine, i morti riversi sulla neve. Sulla collina soprastante ci sta Tony con la sua chitarra, cantore della Fine, menestrello, trovatore, poeta dell'Apocalisse, inguaribile nostalgico, forse solo uno stupido passionale, vedetelo come vi pare.
Se ne sta laconico a guardare l'orribile scenario di desolazione, ma con i piedi ben piantati per terra, poiché il legame con questo mondo è ancora forte, il freddo raschia la pelle e il fetore dei morti prende alla testa.
Disprezzo per questo mondo moderno, che annulla ogni valore e motto di spirito, spoetizza l'esistenza e fagocita tutto in nome del calcolo, del profitto e degli ameni interessi materiali. Un mondo pregno di futilità, che strilla e schiamazza come un bambino viziato, o, peggio ancora, come un deficiente. Un mondo che incita al particolarismo, che porta alla massificazione e all'appiattimento culturale e spirituale. Ma anche amarezza, amarezza per quello che è stato, per quello che è andato perduto. E furore soprattutto, il furore che scaturisce dalla contemplazione della propria terra violentata, la vecchia e gloriosa Europa, fucina di barbarie e nobiltà, di bellezza e distruzione, arte e guerra, oggi ridotta ad un futile centro commerciale.
Tony è di destra, così di destra che scavalca a destra quelli che più a destra non si può, finendo per trascendere la destra stessa ed approdare ad una sorta di destra pre-capitalistica e medioevale, tanto che non sembra nemmeno più destra. Una destra che non si arena nei soliti luoghi comuni e non si abbassa alla venerazione dei soliti spauracchi, una destra che finisce per confluire paradossalmente in certe istanze della sinistra più oltranzista (ricordiamoci, del resto, delle origini sinistroidi ed anti-sistema dei Crisis), con la quale vengono condivisi la comune avversione all'establishment del Capitale ed una accentuata antipatia per l'American way of life.
Una rilettura della storia, quella di Tony, che non può che essere disillusa, cinica ed estranea ad ogni sorta di ipocrisia progressista ("Nature is based on killing, on a hierarchy of Killers, and so are we. Our Institutions, however sanctified; our Churches; our Monarchies; our Dictatorships, and our Democracies, are based on Killing - are built on Murder. . . History' Sea has a Killing Tide" recita il booklet di "The Killing Tide"). Una visione che diviene consapevolezza e diretta conseguenza della natura dell'uomo, divinità ed al tempo stessi bestia, a cui vanno riconosciute le virtù e accettati i limiti.
Un personaggio tosto, che va saputo prendere, non sempre condivisibile, nelle sue scelte come nelle sue convinzioni, ma dannatamente puro, genuino, che ha il gran limite, come artista, di aver scritto una sola canzone in tutta la sua vita, una canzone che ci ripropone ripetutamente da quasi due decadi. Ma che canzone, ragazzi!, una canzone che emana ed emanerà sempre un fascino fottuto, poiché la storia che racconta non può che avvincerci, poiché è una storia che ci tocca nel profondo e per questo probabilmente non ci stancherà mai.
I Sol Invictus sono gli AC/DC del folk apocalittico, anzi, meglio ancora, i Motorhead del folk apocalittico, e Tony è un Lemmy decadente ("Born to lose, live to win", non è stranamente calzante come motto?), solo che al posto di moto, birre e pupe troviamo rune, sangue e principesse.
Singoli, EP, album, live, compilation, split, collaborazioni, progetti paralleli, e chi più ne ha più ne metta, il concetto è sempre lo stesso: che si abbia il primo, l'ultimo lavoro o la discografia intera, avremo capito tutto dei Sol Invictus. Per questo motivo non sono qui a consigliare un'opera in particolare (anche perché secondo me, di veri capolavori Wakeford non ne ha sfornati, o, a vederla da un'altra prospettiva, ha sfornato solo capolavori, ma nell'uno o nell'altro caso, rimane difficile consigliarne uno piuttosto che un altro . . . si potrebbe citare "Trees in Winter", che dovrebbe essere il primo album ufficiale, o i successivi "Lex Talionis", e "In the Rain", ma anche l'ultimo "The Devil's Steed" potrebbe andare, fare voi).
Quale migliore approccio iniziale, quindi, di una panoramica sull'intera carriera? Questo "In Europa" non è un live in senso stretto, né una compilation con velleità da Best of (e lo dimostra la mancanza di classici immancabili come "The Killing Tide", "Black Easter", "Angels Fall" o "Amongst the Ruins").
"In Europa" è invece una strana raccolta che contempla sia registrazioni in studio che dal vivo, sia materiale inedito che classici rivisitati, un'opera che vede la luce solo perché il buon Tony si è ad un certo punto reso conto di avere per le mani del buon materiale da offrire in pasto ai suoi fan (certo, tutti questi personaggi del neofolk non sembrano davvero trovare pace se non pubblicano qualcosa ogni settimana!).
La prima sezione, la più corposa, si compone di brani registrati nel marzo del 96 ad Amsterdam per una trasmissione radiofonica locale, in cui spicca, fra un classico e l'altro, una bellissima versione di "In Europa", song presente nel debutto de L'Orchestre Noir, il progetto di musica sinfonica che vede Wakeford nelle vesti di compositore classico. "Time to Meet the King" è invece un inedito scaturito dalle sessioni dell'album "The Blade", mentre l'ultima parte è un estratto di un esibizione dal vivo tenutosi in Francia a Nevers nel 95 come Tony Wakeford & L'Orchestre Noir, per un totale di quasi settanta minuti davvero entusiasmanti. Da notare che il tutto suona inquietantemente omogeneo, sia a livello di produzione che di songwriting, come se si trattasse di un'opera a sé stante (e ciò la dice tutta sulla varietà della proposta della band lungo l'intero iter discografico).
A partire dall'invocazione iniziale, sarà un susseguirsi di brani epici e struggenti in tipico stile Sol Invictus, fra tragedia shakespeariana e saga "vichinghesca". Lo scarno schitarrare di Wakeford viene qui ad arricchirsi di un corredo folk di tutto rispetto, nel quale primeggiano il violino del sempre ispirato Matt Hodwen, la tromba dolente dell'indispensabile Eric Roger e i provvidenziali gorgheggi eterei di Sally Doherty, che vanno a dare un tocco di varietà laddove la voce da tacchino strozzato di Wakeford non arriva. Solo a tratti l'idillio acustico viene sporcato dalle possenti pennate del basso distorto del fido Karl Blake (l'unico che negli anni, fra un cambio di line-up e l'altro, ha avuto la santa pazienza di resistere a fianco dell'ego ingombrante del corpulento leader), con il risultato di vivacizzare il tutto e accrescere il pathos epico dei brani.
Certo Wakeford è un cantante atroce, e le canzoni sono davvero troppo simili fra loro (sentite gli incipit uno dopo l'altro saltando di brano in brano e rimarrete agghiacciati), e stupisce come canzoni storiche tipo "Media", "Believe Me", "A Ship is Burning", "Sheath & Knife" o "Against the Modern World" (dal primissimo EP e che ricorda davvero "The Death of the West" dei Death in June!) convivano tranquillamente con gli scarti di un album minore come "The Blade". Ma del resto, cos'altro potevamo aspettarci quando tutto scaturisce dall'immediatezza e dalla spontaneità dei moti del cuore, ed ogni gesto non può che rispondere ad unica e sola logica, quella del sangue? E il sangue che anima queste song è il medesimo che pompa nelle vene di questo piccolo-grande artista, che nonostante tutti i suoi limiti compositivi ed esecutivi ha saputo (e tuttora continua a) regalarci grandi gioie.
E a dimostrarcelo c'è il formidabile poker di pezzi finali, un vero Bignami dell'intera carriera del Nostro, nonché inni immortali del genere: "English Murder" (forse l'apice della produzione della band), "Abattoirs of Love", "Summer Ends" e "Come the Horsemen", rivitalizzante dal tocco magico de L'Orchestre Noir, vengono riproposte per l'enne-millesima volta, ma per noi è come se fosse la prima, come sempre succede per le cose belle e semplici.
La registrazione veramente spartana di questa piccola parentesi live e il battito di mani dei quattro (forse cinque) presenti all'evento ci ricordano pur sempre che questo artista non è qui né per soldi né per fama. Oggi come venti anni fa. Grazie Tony.
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