"In the Rain" è un album a cui i fan dei Sol Invictus sono da sempre affezionati.
Lo stesso Wakeford pare avere un legame speciale con questo lavoro del 1995, opera che racchiude in sé brani indimenticabili, fra i più belli ed intensi che l'artista abbia saputo proporre nell'arco della sua carriera.
Brani che superano la prova del tempo, ancora oggi riproposti dal vivo, interpretati con devozione e sentimento; brani che si materializzano sul palco senza il clamore dei grandi classici, bensì come doni preziosi, in punta di piedi, sottovoce, attraverso un sentiero immaginario che sembra partire dal cuore di Wakeford e giungere dritto a quello dei suoi fan.
"In the Rain" si ricongiunge così al filone degli album più intimistici dei Sol Invictus, filone ben rappresentato da lavori come "In a Garden Green" e il recente "The Devil's Steed": una malinconia trasognata, un senso di afflizione che non trova soddisfazione, un moto interiore dello spirito che vola alto e sonda da vaste altitudini le catastrofi immani che affliggono l'umanità intera.
Se Douglas P. tende a nascondersi, mimetizzarsi, celarsi dietro alla musica dei Death in June (mimetica e maschera non sono impiegate a caso), Wakeford fa il vuoto intorno a sé: titanica entità al centro del ciclone, travolto dall'impeto di piogge colossali che inondano ed offuscano il mondo, è un re nudo sul suo trono di Niente.
Come le lacrime solcano le pareti afflitte del suo cuore, così i torrenti torbidi ed impetuosi spazzano via l'amore e la nobiltà di spirito di un'umanità arida e destinata alla morte spirituale.
Quel che rimane è il pantano, le pozze d'acqua stagnante, una figura sfocata e velata al di là del fitto precipitare della pioggia.
Quel che rimane è "Stay", canzone di solitudine e speranza, di un sentimento, l'amore, visto come unico antidoto alla decadenza di un'umanità condannata a perire nel vizio, nell'avidità, nell'ipocrisia, nella viltà.
Un mondo pitturato con le tinte ad olio di una chitarra che marcia solitaria fra le ombre e la stretta lacerante dei violini e del violoncello (a cura di Nathalie Van Keymeulen, Céline Marleix-Bardeau e della sempre ottima Sarah Bradshaw).
"Stay", come la successiva "Believe Me", percorsa da tremebondi rintocchi di piano apocalittico, è un torrente di lacrime versate per il destino insensato di quest'umanità priva di senno e scellerata ("Without love we are lost, Believe me - we are lost, Without love we are dust, Believe me - we are dust", recita il testo di una delle composizioni più sentite ed ispirate di Wakeford).
"Stay", "Believe Me", ma anche la title-track, "An English Garden", sono essenze, aromi, il loro fluire è immortale, volatile è la loro consistenza: esistono a prescindere dalle incisioni in studio, e le versioni di "In the Rain" non sono certamente le migliori versioni possibili.
"In the Rain" soffre infatti dei mali che affliggono i primi lavori dei Sol Invictus, i più intensi e sinceri, ma anche i più acerbi, rozzi e densi di difetti.
La voce sgraziata di Wakeford arranca, fatica ad acciuffare le note più semplici, si rifugia impotente nei medesimi toni di sempre; la sua mano pizzica impacciata le corde della chitarra, rinforzata via via dalle tastiere e dal piano di David Mellor, dalla tromba di Eric Rodgers, dal cupo tambureggiare di Nick Hall. Gli arrangiamenti purtroppo sono quelli che sono, ancora imperfetti e non privi di sbavature ("Europa in the Rain I" ed "Europa in the Rain II", chiamate ad aprire e chiudere l'album, sono imbarazzanti nella loro puerilità melodica).
E' l'anima tormentata di Wakeford il motore propulsivo di tutto.
L'anima di Wakeford: quella sì che sa andare oltre, oltre la perizia tecnica, oltre la qualità dei suoni, oltre ogni decenza compositiva.
Come non esaltarsi, per esempio, innanzi all'epica "Fall like Rain", fra i migliori brani di sempre dei Sol Invictus: claudicante a tratti, solenne in altri, e sempre pronta ad esplodere nel travolgente ritornello dove la voce tremolante di Wakeford è trasportata dalla chitarra elettrica di Karl Blake che si rovescia sulle nostre orecchie con la forza di un torrente in piena.
Grandi momenti, quindi, in "In the Rain": gioielli nascosti e dimenticati come la struggente "Down the Years" o l'agguerrita "Oh What Fun"; ma anche momenti così così, e basti pensare alle scialbe "The World Shrugged" e "In Days to Come", un po' anonime e figlie dei limiti compositivi di Wakeford, limiti che nello scorcio finale dell'album si fanno sentire più che mai.
Ma l'anima e la fede di Wakeford - combattente sconfitto, predicatore al vento, stupido inseguitore di chimere - rimangono forti, salde, indelebili innanzi all'urto, alla furia degli elementi.
Piove a dirotto sulla nostra Europa.
Ieri come oggi e per sempre, il cavaliere decide di sostare e ripararsi al chiuso di una stalla abbandonata.
Posa le armi, depone la pesante armatura e ristora le membra sul soffice pagliericcio.
Chiude gli occhi.
Oltre le colline e via lontano, un mondo che affonda e marcisce, specchio del suo dolore.
Carico i commenti... con calma