"King & Queen" è il solito album dei Sol Invictus, niente di più, forse qualcosa di meno.

E' il 1992, mentre i colleghi apocalittici Douglas Pearce (Death in June) e David Tibet (Current 93) danno alle stampe i loro capolavori della maturità ("But, What Happens When the Symbols Shatter?" e "Thunder Perfect Mind"), Tony Wakeford giunge invece alla sua saturazione artistica: "King & Queen" arranca e taglia il traguardo con il fiato corto, capolinea di una sequela di lavori che, passo dopo passo, avevano lentamente perfezionato la formula inaugurata con l'esordio "Against the Modern World", senza però apportare grandi cambiamenti. Una formula che, dopo i buoni "Lex Talionis", "Trees in Winter" e "The Killing Tide", sembra finalmente sbiadire, perdere il suo vigore, infiacchire sotto i colpi di un visibile calo d'ispirazione. E non è un caso che "King & Queen" non lasci ai posteri alcun grande classico del Sole Invitto. E nemmeno è un caso che nell'anno successivo Wakeford proverà (almeno nella sua testa) ad intraprendere strade relativamente nuove con una carriera solista che poi vedrà successivamente il suo sbocco naturale ne L'Orchestre Noir, progetto che caratterizzerà la seconda metà degli anni novanta. 
E' quindi un brutto lavoro questo "King & Queen"? Nient'affatto: solo mancano dei pezzi clamorosi che alzino prepotentemente la testa dalla consuetudine e facciano vibrare gli animi com'era successo in passato (e come, fortunatamente, accadrà in futuro).
Per il resto l'album si assesta a dei livelli comunque dignitosi, dove a reggere il gioco è ancora (e come potrebbe essere altrimenti?) la verve passionale del panciuto menestrello. Del resto, la sincerità e l'integrità sono da sempre prerogative della musica dei Sol Invictus.

In "King & Queen" s'inizia comunque a consolidare l'orchestra dell'apocalisse di Wakeford, non più solitario cavaliere nella desolazione di un mondo che precipita a rotta di collo: Sara Bradshaw (violoncello), David Mellor (pianoforte, tastiere e percussioni), Karl Blake (basso), Lu Belle (flauto) e Nick Hall (batteria) sono i compagni di sventura, chiamati ad impreziosire le scarne ballate di voce e chitarra di Wakeford. Vuoi con apocalittici accordi di piano, vuoi con il paziente ricamo degli archi e dei fiati, vuoi con i lugubri battiti di un mesto tamburo. 

Il sound si fa quindi maggiormente articolato e corale che in passato: e più che in passato gli strumenti aiutano a tingere il consueto folk apocalittico dei Sol Invictus con i tenui colori di un malinconico rock cantautoriale, che sa pescare parimenti dalla tradizione dei grandi cantautori degli anni sessanta ("Someday") come dal filone rock-progressivo di Canterbury ("Tears and Rain", che si fregia di un bellissimo pianoforte pseudo-jazzato). Non vengono trascurati, naturalmente, i consueti richiami alla tradizione inglese ("Edward", rilettura di un classico della tradizione inglese) e ai toni tragici da poema cavalleresco che in questo album raggiungono l'apice ("The Return").

Nella sola "All's Well in Hell" si fa ricorso a campionamenti e distorsioni, come a richiamare le suggestioni industriali dei primi album. Mentre si fanno molto apprezzare la fragilità e la solitudine percepibili in "Lonely Crawls the Night", forse l'episodio più ispirato del lotto.
La conclusiva title-track fa il paio con l'introduttiva "Sun & Moon", poiché nemmeno lo schema circolare, tipico di molti album dei Sol Invictus, viene stravolto.

Ultimo dettaglio da segnalare: la bellissima copertina ad opera del pittore/musicista Tor Lundvall, la quale inaugura la fruttuosa collaborazione con la band, definendo anche da un punto di vista visivo il mood malinconico e nostalgico che caratterizza l'amara contemplazione del mondo di sir Tony Wakeford, dritto fra le rovine, oggi, come ieri, come domani... per sempre, probabilmente...

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