“Let Us Prey”, pubblicato nel 1992, è il secondo live-album ufficiale dei Sol Invictus.

Il primo era stato l'acerbo “In the Jaws of the Serpent” del 1989, che seguì di poco l'uscita dell'EP di debutto “Against the Modern World”: la schifezza dei suoni, che di certo non aveva esaltato la povertà del bagaglio tecnico dei musicisti, avevano reso “In the Jaws of the Serpent” un episodio alquanto trascurabile all'interno della discografia dei Sol Invictus (poco più che un reperto archeologico per i fan più irriducibili), mentre questo “Let Us Prey”, rispetto al suo predecessore, suona come una scintillante carrellata di belle canzoni, in più di una occasione resuscitate in una forma migliorativa rispetto alle versioni in studio (spesso infestate, soprattutto nei primi lavori, da imperdonabili pecche sia in sede di arrangiamento che a livello di mixaggio dei suoni).

Questa esibizione, tenutasi in un contesto di intimo, quasi religioso, raccoglimento al Concert Artistes' Association di Londra in data 4 aprile 1992, restituisce il leggendario folk apocalittico dei Sol Invictus in una rinnovata veste, elegante quanto essenziale, dato che accanto al deus ex machina Wakeford troviamo solamente uno scarno ensamble da camera composto dal violoncello di Sarah Bradshaw e dal flauto di Stéphane Ruiz, il tutto imbellito dall'indispensabile pianoforte di David Mellor, qui anche curatore dei suoni.

Dunque, la scaletta:

Angels Fall

Fields

English Murder

In a Silent Place

Gold is King

Lonely Crawls the Night

Blood of the Summer

Trees in Winter

World Turn Green

Like a Sword

Let Us Prey

The Killing Tide

Una sequela di brani che ci soddisfa senz'altro, nonostante all'uscita di questo live la band avesse alle spalle pochi anni di attività e solamente quattro uscite discografiche (due delle quali EP). Se quindi è da un lato lampante come già allora Wakeford disponesse di molti assi vincenti da sfoderare con orgoglio sul palcoscenico, dall'altro i fan più attenti noteranno la mancanza di classici del calibro di “A Ship is Burning”, “Against the Modern World”, “Summer Ends”, “Abattoirs of Love”, “Sawney Bean”, “Media” e “Looking for Europe”. Ma da questo punto di vista possiamo tranquillamente sostenere che: a) quasi tutte le canzoni contenute nei primi album dei Sol Invictus sono classici, e della band e del genere intero, impossibile quindi includerle tutte; b) i live dei Sol Invictus non sono mai stati dei rigorosi best of: Wakeford ha sempre amato variare la scaletta a seconda dei gusti personali e dell'umore della serata. In questo caso è lecito pensare che il Nostro abbia (comprensibilmente) dato maggiore spazio ai lavori più recenti (ed in particolare all'EP appena uscito “The Killing Tide, del quale vengono riproposti tutti e quattro i brani inediti), e, più in generale, che abbia voluto allineare la sua produzione dell'epoca ai canoni stilistici adottati compiutamente con il capolavoro “Trees in Winter”, opera che seppe avviare con maggior vigore e convinzione quel moto che ha portato l'ex Crisis ed ex Death In June ad affrancarsi dalle contaminazioni post-punk, dark-wave ed industrial di inizi carriera, per sposare sonorità più rigorosamente folk.

Logico quindi che i brani siano stati selezionati e riletti alla luce della maturità nel frattempo raggiunta, che i brani stessi abbiano assunto i contorni di una visione artistica più nitida e si siano giovati di quell'approccio cantautoriale che infine diverrà il veicolo espressivo prediletto dell'arte apocalittica di sir Tony Wakeford. Peccato che, tuttavia, in questa sorta di “umplugged” (grazie al cazzo!, direte voi, è folk apocalittico!) ne abbiano fatto le spese principalmente il mitico debutto (tributato con la sola “Angels Fall”) e il buon “Lex Talionis” (rappresentato unicamente da “Fields”, scritta fra l'altro ai tempi dei Death in June). Da segnalare, infine, la presenza di due brani (“Loonely Crawls the Night” e “World Turn Green”) che al momento della registrazione del live non erano ancora stati ufficialmente pubblicati, tenuti ancora in serbo per l'imminente uscita di “King & Queen”, prevista nel corso del medesimo anno: tutt'altro che gustose anticipazioni, considerato che quell'album non passerà certo alla storia come il migliore dei Sol Invictus.

Le sensazioni, quindi: non si può certo rimanere delusi innanzi ad un live suonato con dignità e dalla resa sonora complessivamente buona. Il terzetto iniziale di brani, del resto, non può che lasciar senza fiato. “Angels Fall”, tanto per essere chiari, è sempre un piacere ascoltarla (io personalmente l'avrò ascoltata un miliardo di volte, in un migliaio di salse differenti, eppure questo brano ha il pregio di non stancarmi mai); gli accordi apocalittici del piano di Mellor, che sostituisce le sferzate elettroniche della versione originale, sono letteralmente da brividi, come del resto è la prestazione vocale di Wakeford, di certo non degna di un'esibizione alla Scala, ma senz'altro coinvolgente in ogni sua sfumatura. “Fields” è addirittura migliore della versione che possiamo ascoltare su “Lex Talionis”, grazie al solenne lavoro al flauto di Stephane Ruiz, che striscia desolante sulla pelle, mentre il leggendario “liars liars liars liars”, ripetuto laconicamente nel ritornello, non potrà che dilaniare il cuore ancora una volta. “English Murder” poi, non ha certo bisogno di presentazioni: la sua forza visionaria sopravvive agli arrangiamenti minimali di questa riproposizione live dove il fluttuare ondivago e disorientante degli strumenti che accompagnano l'oscuro arpeggiare di Wakeford preservano il fascino onirico del brano, fra i più belli mai scritti dal Nostro.

Mi sento inoltre di menzionare altri tre brani, che a mio parere costituiscono senz'altro i momenti forti di questa opera. “In a Silent Place”, rimane uno dei drammi più intensi mai scaturiti dalla penna derelitta di Wakeford, e se da un lato viene spogliata dall'aura elettrica conferitale originariamente dalle pennate dal basso distorto di Karl Blake, dall'altro guadagna nel finale uno splendido assolo di piano che ne impreziosisce la coda strumentale. “Blood of the Summer”, pur non essendo un classico indistruttibile dei Sol Invictus, su di me ha sempre avuto un effetto elettrizzante, ricordandomi non poco le movenze di un altro momento immortale del folk apocalittico che è “Coal Black Smith” dei Current 93. Ritrovarla qui, ancora più incalzante e ruvida, animata da un flauto epicamente medievale e dal frenetico grattare del violoncello, con un Wakeford letteralmente sugli scudi, è una vera gioia. Come è una vera gioia la versione che ci viene consegnata di quel brano già di per sé spettacolare che è “Like a Sword” (sempre imponente il violoncello della Bradshaw, che conferisce vigore ad un pezzo che, ahimé, presto verrà dimenticato).

Suddetta canzone apre anche la fase finale dell'esibizione, dedicata interamente all'EP “The Killing Tide”: è quindi il momento di “Let Us Prey” che paradossalmente detiene l'onore di dare il titolo all'opera e viene al tempo stesso mutilata (impossibile, del resto, trasferirne la sua magniloquenza strumentale per mezzo di un ensamble ridotto all'osso), finendo per fungere da evocativa introduzione alla conclusiva, intensa “The Killing Tide”, anch'essa ammorbidita, come spesso è accaduto in molti altri episodi qui presenti. La serata si conclude com'era iniziata, ossia con le partiture da camera, per violoncello e pianoforte, del tema introduttivo della già citata “Like a Sword” (a rimarcare la centralità dell'ultima uscita discografica del Sole Invitto all'interno dell'intera esibizione).

Appendice: il sogno impossibile. Sarebbe stupendo poter ascoltare dal vivo “Deceit”, e veder materializzarsi la voce di Ian Read, incunearsi repentina nell'ultimo ritornello fra i volteggi maldestri dell'ugola sgraziata di Wakeford, fra gli archi e i fiati che descrivono la fine del mondo. Ma tutto questo non accade, ed è impossibile che accada, dato che Ian Read lasciò la band poco dopo la sua fondazione e la stessa “Deceit” non mi pare sia stata mai considerata da Wakeford stesso un cavallo da battaglia da riproporre dal vivo sempre e comunque. Perché scrivere allora di un sogno impossibile? Per meglio spiegare l'essenza di questo “Let Us Prey”, che rimane senz'altro un buon live album, ma che non dà forma ad alcun sogno, non stravolge i brani, non sconvolge l'ascoltatore, non porta in definitiva quel valore aggiunto che le esibizioni dal vivo possono e devono portare con sé. “Let Us Prey” è solo la testimonianza di una piacevole serata passata in compagnia del buon Tony Wakeford.

Ce ne fossero di serate così...

These are sad days my friend

We're here to witness the coming of the end

We shut our eyes and we try and laugh

But we know full well that it's all falling apart

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