"Lex Talionis" è un altro buon lavoro dei Sol Invictus, non privo però di quelle imperfezioni che (come accade spesso nei lavori vergati da Tony Wakeford) ci impediscono di gridare al capolavoro nonostante la bontà dei contenuti.
Pubblicato prima nel 1989 e poi nel 1990 in una versione riveduta, "Lex Talionis" è il primo effettivo album dei Sol Invictus, quelli più sporchi, elettrici ed industriali, per intenderci. La chitarra elettrica non è stata ancora del tutto riposta nella sua custodia, a quanto pare, ed il suo uso, in un clima di sporcizia sonora, andrà a caratterizzare più di un episodio di questo lavoro che per l'eterogeneità dei pezzi contenuti, più che un album a sè stante, ci appare piuttosto come una raccolta di registrazioni risalenti ai primi anni di attività della band.
Anzitutto rileviamo la presenza di classici immortali come "Black Easter" (qui in una versione un po' zoppicante, affumicata ancora da suggestioni industriali), "The Ruins" (infuocato folk d'assalto) e la bellissima "Abattoirs of Love", sorretta solo da tastiere ed aperta dai droni, dal piano e dalla leggendaria invocazione di Ian Read: uno dei momenti più emozionanti dell'intera produzione discografica dei Sol Invictus. Parlo al plurale, ma in realtà all'epoca i Sol Invictus sono il solo Wakeford, che si fa carico di tutti gli strumenti (voce, chitarra, basso e tastiere), aiutato a singhiozzo da Karl Blake (basso), Leithana (piano), Dik (batteria) e il già citato Read (fatta salva la menzionata "Abattoirs of Love", non particolarmente incisiva ci risulterà la sua performance vocale, generosa di stecche da far rivoltare i morti nelle bare).
I suoni e gli umori sono similari a quelli dell'EP di debutto ("Against the Modern World", del 1987), dal quale si tramandano la stessa scarsa preparazione tecnica e la stessa approssimazione nel confezionare il prodotto: è quella rozza commistione fra folk, industrial ed elettronica che caratterizza i primi lavori della band, una formula ancora un po' acerba ma non priva di sentimento. Ballate acustiche, squarciate da sinth e drum-machine, si alternano al caos delle macchine e delle chitarre (basti pensare al noise clautrofobico della title-track), in uno scenario in cui il folk ancestrale, che di lì a poco si manifesterà, è ancora lontano dalla sua definizione, mentre a prevalere è la polvere e la ruggine delle macerie e delle ferraglie di una desolazione post-atomica.
Da segnalare senz'altro la ballata elettronica "Tooth and Claw", episodio unico nell'intera produzione discografica della band, che ci consegna un Wakeford nella inconsueta veste di folletto elettrico (lacerante il bellissimo "assolo" di chitarra distorta). I fumi dei trascorsi nei Death in June non si sono evidentemente ancora dissolti, e ne è una prova la riproposizione di "Fields", classico del repertorio della prima fase artistica della Morte in Giugno, qui riveduto in versione rigorosamente acustica. Che si parli però la lingua di un agguerrito folk o di un mesto industrial, lampante in tutto il suo tragico splendore è la missione artistica di Wakeford, ossia quella di materializzare una musica appassionata ed appassionante, venata di disperazione, fatalismo, amarezza, ma vigorosa, rabbiosa, combattiva nello spirito.
Il piano di "Wine and Blood", specchio della iniziale "Blood and Wine", va a chiudere il cerchio, a cintare di malinconia il mondo decadente di Wakeford, disseminato di rovine, intriso di sangue ed irrigato dalle lacrime versate per le sorti irreversibili di un'Umanità in caduta libera.
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