C'è chi, pur consapevole della transitorietà della vita, vede il breve soggiorno su questo mondo come un luminoso raggio di sole da vivere intensamente prima che la Notte eterna torni a regnare. C'è chi, invece, tale condizione di transitorietà proprio non ce la fa ad accettarla, e finisce con il trasformare la propria vita in una angosciosa riflessione sul perché della Fine. Tony Wakeford appartiene certamente a questa seconda categoria: la sua arte, infatti, non è altro che l'espressione dello sgomento che l'Uomo prova innanzi alla Fine, e le sua opere un veicolo finalizzato ad esorcizzare, ma non a risolvere, l'inevitabilità della morte.

"The Blade" esce nel 1997, e a dieci anni di distanza dalla nascita dei Sol Invictus, Wakeford non sembra aver fatto un passo avanti nel suo percorso di normalizzazione del trauma della Fine. Laddove, nel medesimo periodo, Douglas P. sembra fottersene di tutto e tutti standosene pacioso in Australia a gozzovigliare fra koala e canguri, e David Tibet è lì lì per vivere la sua crisi mistica che lo porterà di lì a poco al ricongiungimento con l'agognato Om, la battaglia di Wakeford si fa al contrario più aspra e cruenta che mai. In "The Blade", infatti, vengono ulteriormente amplificati i toni epici e tragici che da sempre caratterizzano la musica dei Sol Invictus, con il risultato che ci troviamo fra le mani l'opera più apocallittica della produzione artistica wakefordiana. "My fate is inscribed on a blade of a knife", recita infatti la title-track, e con queste parole capiamo che Wakeford, cinico osservatore della storia sanguinaria dell'Umanità, non si è affatto arreso, e che "The Blade" è la sua risposta ad un mondo che sembra precipitare sempre più velocemente nel baratro.

I Sol Invictus del 1997 sono una macchina oramai perfettamente rodata, un collettivo compatto ed affiatato in cui il talento di ciascun membro va ad impreziosire le visioni allucinate e decadenti del Nostro. Purtroppo, come in molte altre release della band, non tutto il materiale presente si colloca a livelli eccelsi: alle atmosfere suggestive e ai consueti guizzi vincenti si alternano infatti episodi meno riusciti e passaggi un po' prolissi, in cui i limiti esecutivi ed interpretativi di Wakeford emergono in maniera palese. C'è comunque da riconoscere che in questo "The Blade", che certo non è il capolavoro dei Sol Invictus, si toccano momenti talmente intensi tali da rendere questa opera un acquisto obbligato per chiunque ami il folk apocalittico.

Ad aprire le danze è la marziale title-track, dominata dal basso distorto del sempre presente Karl Blake, provvidenzialmente ringalluzzito dalla chitarra battagliera di Wakeford e dalle incursioni della tromba di Eric Roger e del flauto di Sally Doherty, oramai giunti ad un affiatamento che ha del miracoloso. La prima parte dell'album proseguirà su toni medi, fra episodi non troppo entusiasmanti, come "In Heaven", "Time Flies" e "Once upon the Times", e momenti ben più coinvolgenti, come la minacciosa "The House above the World", animata da cupi rintocchi di piano, e la travolgente "Laws and Crowns", una cavalcata talmente epica da far impallidire Blind Guardian e compagnia bella.

Ben più interessante, a mio parere, la seconda parte dell'album, ed in particolare il trittico composto da "See How We Fall", "Gealdor" e "From the Wreckage". "See How We Fall" si meriterebbe, assieme a "Rose Clouds of Holocaust" dei Death in June, un posto d'onore alla voce "folk apocalittico" in una ipotetica enciclopedia multimediale. Questa canzone è il folk apocalittico: un arpeggio spietato, oscuri feedback di chitarra, sentenze che ci piovono in testa come macigni. "The eternal hopelessness of being" recita la voce imperiosa di un titanico Wakeford, ed è solo l'inizio di una caduta libera negli abissi che, fra letali incursioni di violino e bordate di basso distorto, non sembra mai finire: "We fall and fall forever, and never and never hit the ground", continua infatti a cantarci Wakeford, mentre l'arpeggio sfuma nei droni corticosi di "Gealdor", oscuro passaggio infestato da minacciosi rituali (per la cronaca: gli stessi rituali che Tibet trasforma in versacci demenziali in "Valediction" di "Swastikas for Goddy"… grande Tibet!). I medesimi droni confluiscono nelle atmosfere estranianti della track successiva, "From the Wreckage", un'altra strumentale dall'immenso potere evocativo: sugli inquieti fraseggi di un mistico ambient si innesta il canto lontano di un flauto, e mentre la nostra mente sarà catapultata in dimensioni parallele, è la la voce strascicata di Ezra Pound a destarci dal torpore e preparaci al climax emotivo dell'opera. Pare di vivere gli ultimi istanti prima della fine del mondo: oscure nubi si affastellano nel cielo grigio, mentre il rombare dei tuoni suona come un fosco presagio. Si materializza all'improvviso la chitarra di Wakeford, che pare suonata nel bel mezzo di un buco nero, ma a scuoterci le membra è il canto disperato del violino di Matt Hodwen, che sembra voler musicare (riuscendoci) il lamento dell'Umanità che si avvia mestamente alla sua Fine. Siamo a mio parere arrivati davvero lontano, molto lontano, ed in tutta sincerità, e con le lacrime agli occhi, non posso che esortarvi ad ascoltare il pezzo, una delle cose più belle che siano mai entrate in contatto con le mie orecchie!

L'album si conclude più che dignitosamente con "Nothing Here", "Remember and Forget" (spettacolare intermezzo in cui troviamo a deliziarci i gorgheggi eterei della eccezionale Sally Doherty), e il reprise della title-track, arricchita del canto di Wakeford, il quale si occupa di precisare le ultime questioni irrisolte, prima di calare la saracinesca e chiudere bottega.

Dicono che fra 50-60 anni il mondo dovrebbe finire. Beh, se non altro saprete cosa mettere nel vostro lettore!

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