The Cruellest Month” è finalmente nelle nostre mani: un'uscita discografica che, fin dalla copertina, assume i contorni dell'Evento.
Sei anni di attesa, pubblicazione più volte posticipata, una copertina splendidamente ritratta da Tor Lundvall a richiamare i bei tempi andati: i Sol Invictus sono tornati, anche se gli affezionati di Tony Wakeford hanno avuto in tutti questi anni, fra album solisti e progetti paralleli, più di un'occasione per soddisfare il proprio palato.
I Sol Invictus sono tornati, per la gioia di molti, anche se molti avranno giustamente da pensare, dopo l'agognato ascolto: “La solita minestra riscaldata”. Sì, una minestra riscaldata, ma riscaldata dall'unico chef in grado di renderla comunque appetibile: l'ultimo lavoro dei Sol Invictus non deluderà i fan, ma non ne creerà certamente di nuovi, dato che non rinveniamo alcun cambiamento traumatico a sfigurare il sound collaudato e perfezionato in quasi venticinque anni di carriera.
I Sol Invictus non sono però più quell'orchestra miracolosamente affiatata che ha dato alla stampe capolavori come “The Blade” e “In a Garden Green”; lo stesso “The Devil's Steed”, nonostante una formazione rimaneggiata, era stato un album compatto, brillante nel song-writing e formalmente ineccepibile: un'opera che riluceva più per il suo senso d'insieme che per i singoli episodi. Questo lavoro del 2011, forse un po' più sgangherato del suo predecessore, vive tuttavia di autentici sussulti: la musica dei Sol Invictus non è più un volo poetico nei cieli crepuscolari di un mondo infuocato dall'Apocalisse, l'aria che si respira è qualcosa di più terreno, reale, consistente, si sente l'odore rancido della terra bagnata, ci si perde nella nebbia densa che avvolge gli accidentati spazi aperti in cui possenti eserciti si assemblano e comandanti invasati arringano i propri uomini preparandoli alla più cruenta delle battaglie.
Il tipico folk apocalittico dei Sol Invictus si radica sempre di più nella tradizione folk popolare inglese, e in questo pesa senz'altro il contributo di un medievalista come Andrew King, vero pilastro del nuovo corso dei Sol Invictus: già collaboratore in “Into the Woods” (l'album solista del 2007) e co-protagonista nel progetto The Triple Tree, King inietta vigore e nuova linfa vitale nell'arte del panzuto menestrello inglese, che scende dal sua “trono” di disincantato osservatore per impugnare le armi e sporcarsi di sangue.
Come il Moynihan dell'ultimo album dei Blood Axis (l'imperdibile “Born Again”), Wakeford si erge eroicamente “dritto fra le rovine”, fra lo sfacelo di un mondo in stato di avanzata putrefazione culturale e morale, quale detentore della Tradizione, patrimonio da proteggere e conservare oltre lo sfacelo del presente. “The Cruellest Month” recupera così la vena più epica, caustica e battagliera del Sole Invitto, senza comunque perdere quel senso di “disfatta imminente” che precede la lotta più cruenta: quella disperazione data dalla necessità di combattere nonostante l'avversità di forze soverchianti.
La prima parte dell'album suona nel complesso come il tipico album dei Sol Invictus con i suoi alti e bassi, capace di emozionare come di sedimentare delle perplessità, un po' per l'aleggiante senso di deja-vu, un po' per l'incapacità di saper tenere sempre la tensione alta e rendere al massimo ogni singola intuizione, un po' per quell'impressione di trascuratezza (soprattutto in sede di arrangiamenti) che ha ammorbato più di un lavoro vergato da Wakeford.
Si fa notare senz'altro “To Kill All Kings” con il suo alternarsi di terribili cori e la voce di Wakeford inacidita dalla vecchiaia: come spesso accadrà in seguito, il brano, scosso da robuste percussioni, sa fare a meno del formato canzone, edificandosi in un crescendo irresistibile mano a mano che gli altri strumenti si accoderanno: “To Kill All Kings” è un autentico anthem, è la “We are the Dead Men” del nuovo decennio e costituisce indubbiamente la forma ideale con cui si poteva concretizzare il ritorno del Sole Invitto.
Si susseguono le soffuse evocazioni di Andrew King (“The Sailor's Aria”, la rilettura del tradizionale “Edward”), alle più tipiche visioni di Wakeford, di cui la distesa “Fools Ship”, cardine concettuale dell'opera (“Books and bodies burn to prove we never learn”, versi emblematici che rimarcano la visione cinica e pessimistica di Wakeford nei confronti della storia e dell'umanità) ne è la migliore rappresentate. Non si perde nemmeno quel pizzico di eterogeneità che aveva caratterizzato gli ultimi lavori di Wakeford (gli umori zingareschi di “Toys”, i sentori smaccatamente settantiani di “The Bad Luck Bird” che richiama in causa i Jethro Tull di Ian Anderson, svelando la passione, per altro mai celata, di Wakeford per quel rock progressivo dai forti connotati folk che nel tempo ha trovato spazi sempre maggiori nella sua musica).
E' tuttavia nella porzione finale dell'album, animata da un rude ed esasperante spirito marziale, che ogni perplessità sullo stato di salute della band viene letteralmente spazzata via. “Cruel Lincoln” (altro tradizionale) è una sorta di “The End” medievaleggiante protratta per otto minuti in cui il ringhiare allucinato di King ci trascina secoli indietro, in un viaggio nel passato più selvaggio che ci possiamo immaginare, fra cori cantati a squarciagola ed arcani inni di battaglia che crescono insieme al rombare delle percussioni ed allo stridore dei violini.
In “Somethings' Coming”, tesa, epica drammatica folk-balld, a Wakeford evidentemente piace vincere facile, ma come si fa a rimanere impassibili innanzi alla riproposizione di quello che al Nostro riesce meglio? La title-track, nella sua monumentalità, porta un vago sentore di novità: divisa in tre fasi, l'ennesima tragedia messa in musica da Wakeford parte meditabonda, per sola voce e flauto; dopo l'introduzione bucolica, esplode il corpus della canzone nello sconquasso delle percussioni e la reiterazione dei temibili cori; un'altra pausa ancora, e poi la tragica ripresa finale: preludio perfetto per l'ultimo (sublime) assalto, ossia la conclusiva “The Blackleg Miner”, solo tre minuti e ventiquattro secondi per farci capire di che pasta è fatto Wakeford! Il brano parte come mille altri dei Sol Invictus, ma verso la metà cambia improvvisamente passo, tramutandosi in una forsennata fuga apocalittica fra arpeggi raschianti, violini contorti, piatti schiaffeggiati senza pietà e la ferma voce di Wakeford a decantare gli ultimi versi di questo anelato ritorno: un album che a conti fatti finisce per suonare come uno dei migliori partoriti dal genere negli ultimi anni.
Voto all'album: “Cazzo quanto è cazzuto quel cazzone di Tony Wakeford!”
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