“The Death of the West” era stato il brano che aveva aperto l'EP “Burial”, ultima uscita discografica dei Death in June che vedesse la presenza di Tony Wakeford. Si sa, ufficialmente il folk apocalittico nascerà nel 1987 con il “Brown Book”, ma “The Death of the West” è il primo esperimento compiuto che vede il trio londinese, irretito all'epoca (era il 1984) nei solchi di un oscuro e marziale post-punk, alle prese con una ballata interamente acustica: formula rivoluzionaria che detterà il proseguo del tragitto sia dei sopravvissuti Death in June sotto la guida di Douglas P., sia del sopravvissuto Tony Wakeford con i suoi Sol Invictus. Nasceva il folk apocalittico e forse “The Death of the West” ne è stato il primo esempio.
“The Death of the West” è anche il nome di un album dei Sol Invictus uscito nel 1994. Negli intenti del suo autore doveva essere un lavoro breve: l'incontinenza artistica di Wakeford ne farà un full-lenght. Non un album ufficiale, anzi, un album “obeso” (come l'ha definito il suo stesso autore) in cui convivono brani inediti e riletture di pezzi già pubblicati in passato, e l'idea di riappropriarsi di un classico dei Death in June di dieci anni prima diviene presto il pretesto per sviluppare un concept attorno ad una tema portante del Wakeford pensiero: l'inarrestabile decadenza spirituale del mondo odierno, ossia “Il Tramonto dell'Occidente”, che non è altro che il titolo della celebre opera dello scrittore, filosofo e storico tedesco Oswald Spengler (testo fondamentale per comprendere le basi culturali che si celano dietro all'intero genere). Ma come era successo tre anni prima con l'”EP allargato” “The Killing Tide”, del quale questo “The Death of the West” può essere visto come il cugino minore, se da un lato rimaniamo senza fiato per la bellezza dei suoi contenuti, dall'altro non gridiamo al capolavoro per la presenza ingombrante di inserti che potevano essere tranquillamente cestinati. Pregi e difetti, quindi, che ritroviamo in molti altri lavori targati Sol Invictus, anche quelli più belli.
“In the West” è solamente una breve introduzione acustica, ma i tre pezzi che seguono ci mettono letteralmente in ginocchio, e da soli valgono l'acquisto (obbligato per i fan del genere!). L'immensa “Sheath and Knife”, per esempio, rimarrà nei secoli come un grandissimo classico dei Sol Invictus, e forse a qualcosa è davvero servito quel mezzo passo falso che era stato “King & Queen”, il quale, pur suonando un po' scialbetto nel complesso, aveva avuto il merito di settare definitivamente Wakeford sulle coordinate di un folk cantautoriale che nel tempo diverrà il suo medium espressivo prediletto per dare sfogo alla sua indole apocalittica. L'estro di Wakeford spiega definitivamente le ali, veste i panni di un folk corposo e ben orchestrato, irrobustito da potenti percussioni e levigato dalle striature di un ensamble da camera di tutto rispetto, dove a primeggiare sono il violoncello della divina Sarah Bradshaw e le tastiere del sapiente produttore David Mellor, artefice primo del nuovo sound: “Sheath and Knife”, ispirata dalle belle parole di Andrew King, è dunque lo spirito cavalleresco di Wakeford che emerge tracotante dallo scontro sofferto fra ragione e sentimento, dal confronto fra “fodero e pugnale”, crogiolo incandescente e sempiterno dei sentimenti umani. “Sheath and Knife” è quindi una intensa ballata medievale, struggente all'inizio e impetuosa nel suo evolversi (si guardi alla poderosa ripartenza appena dopo il breve break per sole voce e percussioni): un brano magnifico che ancora oggi ha l'onore di presenziare nelle esibizioni dal vivo dei Sol Invictus.
E se questo non vi basta, passiamo alla doppietta che segue: la travolgente “Amongst the Ruins”, che già ci era piaciuta in “Lex Talionis”, qua viene arricchita da nuovi arrangiamenti che impreziosiscono e non ledono l'energia pulsante di un brano che aveva saputo brillare anche solo per il vigore della chitarra e della voce: un brano travolgente che ci consegna il Wakeford più aspro ed eroico, all'apice del suo credo evoliano (“dritto fra le rovine”, avverso al decadente mondo moderno, detentore del fuoco della tradizione da tramandare a beneficio di epoche più clementi per il genere umano). Ma non è finita: “Kneel to the Cross”, sempre da “Lex Talionis”, in origine era stata una maldestra invocazione misterica ad opera di Ian Read, penalizzata da una pessima produzione e dai tremendi intrecci canori fra Wakeford e Read, che sembrano fare a gara a chi stona di più. Con “Death of the West” essa torna a vivere totalmente stravolta: della versione originale viene conservato il solo mantra di voci iniziali, ma quel che seguirà è una ballata di fottuto folk apocalittico con la B, la F e la A maiuscole. A volte Wakeford mi sembra piccolo piccolo, annaspante nei suoi limiti tecnici e compositivi, altre volte invece mi si è figurato gigantesco, titanico, totalmente padrone della sua incandescente materia emotiva e perfettamente focalizzato sulla sua visione artistica, e “Kneel to the Cross”, con il suo spargimento di sangue e lacrime, è senz'altro uno di quei momenti in cui Wakeford mi appare grandissimo: un brano che andrebbe ascoltato per comprendere pienamente cosa si debba intendere per folk apocalittico.
“The West” è una lunga suite strumentale che va a rimarcare la nuova impostazione artistica di Wakeford, sempre più prossimo ad un sound sontuoso ed evocativo, ma a ridestarci è la stessa “The Death of the West” di cui si parlava all'inizio: dell'originale si conserva il testo e l'impostazione acustica, ma per il resto siamo innanzi ad una nuova canzone, Sol Invictus al 100%, una rilettura che poco ricorda l'originale, interpretata all'epoca da uno scanzonato Pearce. Il testo intriso di un puerile anti-americanismo probabilmente ereditato dalla fase Crisis, acquisisce un nuovo senso grazie alla verve epica di Wakeford, e nei suoi due minuti di durata (imperdibile il maestoso organo nel finale che innalza ulteriormente il tasso di epicità) il brano ben giustifica la ragion d'essere di Wakeford come artista autonomo (che negli anni continuerà – ingiustamente – a pagare il dazio di un ingombrante passato in seno a quei Death in June che con Pearce diverranno il simbolo del genere intero e che spesso ne oscureranno l'operato).
Come si diceva in principio, l'album non è tuttavia un capolavoro, e nella sua seconda metà si inizia a respirare un certo disorientamento dato da un evidente calo di ispirazione. In un certo senso si perde la compattezza e il rigore concettuale che avevamo percepito fino ad un attimo prima: i brani che seguiranno sembrano infatti scarti di altri lavori, ipotetici “lati B” che in “The Death of the West” trovano finalmente collocazione per ferma volontà del suo autore, che evidentemente non poteva fare a meno di pubblicarli. Niente di particolarmente orrendo, ma una sorniona “Here I Am” (con la sua trombetta allegra e un sereno Wakeford che, a scapito del testo pessimista, fa “pa pa paaaaa” come se fosse domenica mattina e stesse facendo colazione davanti ad una bella tazza ricolma di cornflakes) sembra francamente fuori contesto. Meglio la successiva “Our Lady of the Wild Flowers”, ballata malinconica dal forte potere evocativo che per un momento sembra risollevare le sorti dell'operazione. Ma “Petals from a Rose”, pur nella sua brevità, riesce persino ad innervosire, trattandosi di un futile intermezzo strumentale in cui il Nostro pare divertirsi a mettere insieme i cocci sconclusionati di una bizzarro medieval-progressive dalle tinte barocche. E nemmeno “Come Join the Dance”, altro brano che non lascerà certamente il segno, è in grado di innalzare allo status di capolavoro un album che era iniziato all'insegna di grandi emozioni e che pare concludersi a suon di sbadigli.
Come da copione è il reprise dell'iniziale “In the West” a chiudere il cerchio, ma c'è da dire che almeno con questo brano Wakeford ci lascia andare a letto con il sorriso sulle labbra: l'arpeggio iniziale ha senz'altro fatto scuola, il resto del brano si sviluppa poi con lo schema del crescendo drammatico, affastellando immagini apocalittiche come solo Wakeford sa fare, e per questo gliene siamo grati e sempre gliene saremo.
“The Death of the West” è quindi un album da avere, un album in cui i difetti sono tutto sommato minori rispetto ai pregi: non è il capolavoro dei Sol Invictus, ma ci consegna un poker di classici che sicuramente devono presenziare nella collezione di ogni estimatore del genere che si ritenga tale.
Sia benedetta quindi la Prophecy, che grazie ad una serie di provvidenziali ristampe, ci dà la possibilità di entrare finalmente in contatto con molti grandi lavori dei Sol Invictus che fino a ieri erano praticamente irreperibili. Con l'acquisto di “The Death of the West” appongo così l'ultimo sofferto tassello di un percorso iniziato parecchi anni fa. E con questa recensione si completa anche un percorso qua su Debaser (che certo non abbandonerò, né come lettore, né come recensore): un percorso che è servito soprattutto a me per acquisire una maggiore consapevolezza della musica che amo. Andare a riascoltare questi album, ritornare ad essi con un rinnovato approccio analitico, documentarmi e fare ricerche sugli artisti che li hanno generati, mi ha senz'altro accresciuto come appassionato di musica e come essere umano. Rimango sostanzialmente un “tappa buchi”, qua su DeBaser, e se nel tempo il mio nome è stato associato principalmente ad un genere come il folk apocalittico, è quasi un caso: semplicemente non vi erano recensioni su questi artisti, e l'intento che mi ha da sempre animato è stato quello della mera divulgazione (approfitto della circostanza per scusarmi delle varie imprecisioni che noto a posteriori rileggendo i miei scritti: anche per me è stato un percorso di apprendimento). Vedere tuttavia le mie recensioni, seppur a tratti snobbate o addirittura disprezzate, comunque nel tempo lette da molti utenti, mi fa sentire orgoglioso: orgoglioso di aver contribuito ad accrescere la conoscenza collettiva di un genere musicale e di band altrimenti poco conosciute; orgoglioso di aver forse illuminato il percorso a qualche anima a me affine; orgoglioso se la mia opera ha migliorato, anche di poco, la vita a qualcun altro, come molte altre recensioni l'hanno migliorata a me.
The Apocalypse Must Go On.
Carico i commenti... con calma