"We are the Dead Men": con questo anthem si apre l'ultima (ad oggi) fatica discografica dei Sol Invictus.
"We built the ships, For war and for peace, We built that church, In whose gardens we sleep... We are the Dead Men!": la vena fatalista, il pessimismo universale, l'amaro disincanto di Tony Wakeford non si sono evidentemente affievoliti negli anni. E dopo un paio di album non eccessivamente esaltanti ("The Hill of Crosses" e "Thrones", nel quale si erano andate a ricercare nuove soluzioni per svecchiare una formula stra-collaudata), Wakeford torna a fare quello che gli riesce meglio: sano e semplice folk apocalittico.
"The Devil's Steed" è infatti un gradito ritorno alle sonorità che hanno reso celebre l'artista inglese, ed a quasi vent'anni dalla nascita della formazione (è il 2005) dimostra che la leggenda è ancora viva: brillante nel songwriting, sentito a livello emozionale, elegante nelle forme, "The Devil's Steed" si rivela un album di gran classe, un album di cuore, un album che conferma la coerenza stilistica della band, ma che è anche in grado di apportare delle novità. E' l'atmosfera, in particolare, a farsi meno cupa, e senza perdere la sofferta decadenza che da sempre lo caratterizza, il sound dei Sol Invictus si ammanta di un'aura magica, a tratti onirica, sognante, eterea. Come se la crociata di Wakeford perdesse quei toni aspri che in passato l'avevano attraversata, e si rifrangesse nei riflessi tenui di un sole rosso al suo tramonto definitivo. Bagliori di un crepuscolo a cui ci aggrappiamo disperatamente prima che l'oscurità ci porti via tutto.
Dodici ballate senza tempo intervallate da tre episodi strumentali: quindici gioielli acustici squarciati sovente da acciecanti incursioni di rumorismo astratto che tingono dei colori del tramonto il canto della Fine di Wakeford.
Le rifrazioni di chitarra di Gary Parsons, il basso pulsante di Karl Blake, la tromba strabiliante e solenne di Eric Roger vanno a costruire melodie oblique e rarefatte che richiamano echi lontani di una tensione sempiterna, di un epico scontro senza luogo e senza tempo, di una cavalcata tragica in un cielo di fuoco. E se Matt Hodwen e il suo violino oggi non fanno più parte dei Sol Invictus, a fare le sue veci troviamo Maria Vellanz e Renée Rosen che, forti di una attitudine maggiormente rumoristica (sentite come stridono gli archi violentati in "O Death Come Close My Eyes") non fanno certo rimpiangere l'illustre predecessore.
La sofferta "Old London Weeps", l'epica "The North Ship", la visionaria "A Steed for the Devil": "The Devil's Steed" è un sogno in cui tutto appare sfocato, intangibile, mellifluo. In mezzo a tutto, la fermezza, la determinazione, l'ostinazione di Wakeford, la sua solida voce monocorde, la sua chitarra dallo spietato incedere. Fra rivisitazioni della tradizione popolare inglese ("Twa Corbies"), escursioni oniriche (gli otto minuti di "Where Stone Lions Prowl") ed espressioni di sentito cantautorato ("A Window to the Sun"), giungiamo alla sublime rarefazione di "The Silver Swan", che recita "Farewell all joys! O death, come close my eyes", eloquente nel delucidare gli umori di questa opera.
Forse 60 minuti son troppi per un album che poteva essere qua e là alleggerito di qualche episodio un po' anonimo e tutto sommato ridondante. Ma "The Devil's Steed" non è una semplice raccolta di canzoni, è un'unica esperienza da vivere a occhi chiusi, estranei a quello che ci attornia, piacevolmente insensibili innnazi a quello che è stato e a quello che sarà. Ma al contempo Wakeford è in grado di regalarci un grande inno generazionale, anzi universale, da cantare ogni giorno, ogni mattina quando ci svegliamo, ogni sera quando torniamo stanchi e ci accingiamo a rivivere da capo la nostra piccola tragedia quotidiana, il nostro lento ed inesorabile procedere verso la Fine: "We are the Dead Men".
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