E dopo una recensione sui PGR ed una sui punkettoni Crisis, torniamo a noi: al folk apocalittico, tanto per non perdere il vizio!
Torniamo ai Sol Invictus. "The Hill of Crosses" è l'album del 2000. Tony Wakeford tiene a precisare che l'opera rappresenta il giusto connubio fra innovazione e tradizione: nei fatti ci troviamo innanzi al solito (l'ennesimo!) album dei Sol Invictus, con l'aggravante, però, di non essere all'altezza degli album appena precedenti, che in qualche modo, non con l'innovazione, bensì con l'ispirazione, erano riusciti a mantenere viva una formula stra-abusata nel corso degli anni.
Nel 2000 oramai s'è perso il conto delle uscite vergate Wakeford, inutile quindi stare a fare il punto della situazione. Come molti altri album del Sole Invitto, non è un cattivo album, solamente non colpisce nel segno come succede in altri lavori, anche se Wakeford gioca più o meno le medesime carte di sempre. E le carte giocate non sono assolutamente da poco: in "The Hill of Crosses" ritroviamo probabilmente la formazione migliore dei Sol Invictus. Ritroviamo così Matt Howden (violino), Eric Roger (tromba), Sally Doherty (flauto, voce), Karl Blake (basso), Jane Howden (voce) e Renée Rosen (piano). Eppure non rinveniamo la monumentalità che i medesimi musicisti sono stati in grado di conferire agli album precedenti.
Si parlava di innovazione, ma forse solo in due circostanze possiamo cogliere delle novità. Il primo caso è "December Song": interamente cantata dalla Doherty e massaggiata dalla tromba sorniona di Roger, il brano si distacca dalla ferrea logica wakefordiana per abbracciare i territori fumosi di un jazz-club notturno (lo stesso Wakeford, amante della musica jazz, dice di aver pensato a Chet Baker, artista da lui stimato). Niente di sconvolgente, ma fa abbastanza strano sentire i Portishead flirtare con i Sol Invictus!
L'altra novità, se si può ritenere tale, è la scelta di reinterpretare un classico della tradizione popolare lituana: nella forma "Hundreds" ci suona come un tipico brano dei Sol Invictus, ma è lodevole almeno il tentativo di allontanarsi per un istante dall'amata tradizione inglese (i motivi della scelta sono da addurre alla nazionalità di origine della moglie di Wakeford, lituana appunto, e la volontà di voler tributare la forza di una tradizione che ha saputo sopravvivere al passaggio del nazismo prima e del comunismo poi).
Per il resto, "The Hill of Crosses" è il consueto viaggio verso la fine del Mondo a cui Wakeford ci ha oramai abituato dopo anni ed anni di indefesso folk apocalittico.
Seppur di spirito più battagliero che in passato (possenti le esplosioni di violino/tromba/basso distorto, mentre torna spesso il fragore dei tamburi da guerra), persistono certe atmosfere sacrali ereditate dall'immediato predecessore "In the Garden Green", anche se qui perseguite con minore convinzione. E così un solenne organo e soavi gorgheggi femminili animano l'introduttiva "Chime the Day" e l'inevitabile controparte "Chime the Night", questa volta non posta in chiusura: un modo per conservare lo schema circolare su cui gli album dei Sol Invictus sono generalmente costruiti e al tempo stesso lasciare l'onore della chiusura delle danze alla formidabile title-track, l'unica del lotto a potersi fregiare dello status di classico (anche se nei fatti presenzierà solo per qualche anno ancora nella scaletta dei concerti). In ogni caso "The Hill of Crosses" rimane un ottimo brano, sicuramente fra i più suggestivi dell'album: impreziosito dalla solenne tromba di Roger, il brano, vero inno alla Fine, incarna alla perfezione l'essenza dei Sol Invictus. L'immagine è quella di un tragico Wakeford, chitarra in mano, in piedi su una collina costellata di croci, cantore delle umane afflizioni, fra il sangue, i teschi, le armi e i vessilli spezzati di un'umanità votata al massacro, ed un cielo minaccioso che presto spazzerà via tutto a suon di fulmini, turbini di vento e pioggia torrenziale.
Gli altri brani non son da meno, e presi uno per uno, ciascun sembra conservare la propria ragion d'essere. Forse a penalizzare l'ascolto nel complesso è l'eccessiva similarità degli episodi, che tendono a somigliarsi soprattutto nel ripetere pedissequamente lo schema che vede le due voci (quella di Wakeford e quella della Doherty) inseguirsi ed imboccarsi le strofe a vicenda.
In più dobbiamo ammettere che il Tony non è proprio al top della forma, più mesto del solito a livello vocale, più anonimo nello strimpellare la chitarra. Niente invece da ridire per i compagni di viaggio: i fischi del violino di Howden sono oramai un classico del sound targato Sol Invictus, mentre è la Doherty, con la sua splendida voce, a salvare il culo a Wakeford in più di una circostanza.
Come sempre dico in questi casi: un buon album, ma non il migliore dei Sol Invictus. Consigliato comunque a tutti i fan della creatura di Wakeford, che con l'album successivo, "Thrones", davvero tenterà di portare una ventata di freschezza, senza però, anche in quel caso, convincere appieno.
Buona Fine.
"Past our pain and our losses
When we climb the hill of crosses
March through death to where love is
When you climb th hill of cross"
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