“Thrones” non è di certo da annoverare fra gli album più riusciti dei Sol Invictus. Non sarebbe giusto tuttavia rimproverare a Tony Wakeford di non averci almeno provato. Provato, intendo, a rivoluzionare un poco la sua creatura, da tempi immemori imprigionata in un ferreo immobilismo stilistico.
Peccato che le sperimentazioni qui tentate non risultino sempre convincenti; anzi, a tratti arrivano ad urtare il sistema nervoso tanto questo album ci appare senza capo né coda, come se Wakeford tutt'ad un tratto avesse perso la bussola, oltre che l'ispirazione dei tempi d'oro.
Qualche timido passo in questo senso era stato abbozzato nel precedente, non entusiasmante, “The Hill of Crosses”; e proprio da certi episodi di quell'album (la mente va soprattutto al candido jazz-noir di “December Song”) sembra ripartire il cammino dell'instancabile Wakeford che, dopo alti e bassi, ed una serie di album-fotocopia, decide di dare sfogo, nell'anno 2002, dopo ben 15 anni di astinenza!, alle sue pulsioni più represse, e tingere il peculiare folk apocalittico dei suoi Sol Invicus con i freschi colori di generi musicali facenti parte del suo ricco bagaglio culturale, quale il jazz, appunto, il blues ed il rock progressivo degli anni settanta.
Dal punto di vista dell'impianto strutturale, “Thrones” si presenta come uno degli album più complessi e meglio strutturati della carriera di Wakeford, con tutta una serie di giochi di rimandi fra la prima e la seconda parte dell'opera.
Succede così che l'album esordisce all'insegna di una spiazzante sequela di episodi strumentali, dove qua e là rinveniamo le stilettate di un flauto traverso in tipico stile Jethro Tull, o momenti più crepuscolari dettati da veri e propri tempi jazzati, con tanto di tromba sorniona, basso e batteria.
In questa prima parte è tuttavia difficile entusiasmarsi, le suggestioni sono molte e molto discordanti fra loro e soprattutto distanti da quello che è il tipico sound dei Sol Invictus: i pochi brani cantati, inoltre, soffrono di evoluzioni pasticciate e di chorus alquanto anonimi (“Do and Say” e “Then He Killed Her”).
L'album soffre, in defintiva, di un insensato sbilanciamento a favore di una seconda porzione che sa convincere maggiormente, riprendendo i temi della prima e sviluppandoli in un formato canzone che sa resuscitare a tratti i bei tempi andati.
A fare da spartiacque l'elettronica di “In God We Trust”. Però mi chiedo: perché, una volta palesata l'intenzione di nobilitare il sound attraverso la contaminazione con generi colti, riesumare il rumorismo industriale in questo pezzo che ci appare per davvero fuori luogo? Il brano, per lo più penalizzato da una performance vocale alquanto anonima, ha modo tuttavia di salvarsi in extremis grazie a un coinvolgente assolo di tromba di Eric Roger, epicità al cubo in odore di Ennio Morricone.
Conveniamo tuttavia che gli sporadici guizzi di genio degli eccellenti musicisti che da quasi un decennio accompagnano Wakeford (in primis, il sensazionale violinista Matt Howden) non bastano più a conferire dignità ad un prodotto che vede le proprie basi minate da una sconfortante fiacchezza compositiva. Anche perché, per quanto Roger e Howden siano bravi, anche loro iniziano a stancare, poiché le loro gesta, dopo tot album, finiscono per divenire irrimediabilmente prevedibili e ridondanti, se non ispirate da uno sterile manierismo.
Cosa salvare allora di “Thrones”? Le buone intenzioni, senz'altro, ed una manciata di brani che alla fin fine sanno intrattenere, come “The Thrill is Gone”, sedicente cover di un classico della tradizione blues, qui sollazzato dai soavi gorgheggi di Sally Doherty (Santa Subito!!!), o pezzi old style come “Driftwood Thrones” e “No Gods”.
Ma la vera perla dell'album è la conclusiva “In a Blink of a Star”, struggente ballata che può fregiarsi di un ritornello finalmente sentito, impreziosito dai malinconici volteggi di violino di Howden ed un'interpretazione vocale che, pur nella sua semplicità, è capace di rievocare i Sol Invictus più ispirati. Un frangente che lascia un buon sapore in bocca, e che spinge a riascoltare l'album: un album che, per quanto bruttoccio, alla fin fine risulta più simpatico e sicuramente di caratura superiore del precedente “The Hill of Crosses”, vigliacco oltre che scialbetto.
"Thrones” segnerà anche il termine di un'era della carriera dei Sol Invictus, ormai giunti ad una fase di deterioramento artistico tale da richiedere l'urgente intervento di una iniezione vitale. All'indomani della sua uscita, la formazione storica inizierà a sgretolarsi: Howden e la Doherty abbandoneranno presto la nave, mentre Roger e Blake, ancora presenti nel successivo “Devil's Steed” (convincente ritorno a sonorità più tipiche per la band), si allontaneranno lasciando Wakeford nuovamente solo, ma in condizioni di potersi rigenerare attraverso la collaborazione con nuovi brillanti comprimari; un nome su tutti, il folle e visionario giullare Andrew King, che, partecipando prima all'album solista di Wakeford “Into the Woods” e poi costituendo una colonna portante del riuscito progetto The Triple Tree, si mostrerà un saldo e valido punto d'appoggio su cui il redivivo Wakeford potrà tentare il salto per realizzare la sua rinascita artistica.
S'inghiotte amaro, ma si va avanti: la disperata crociata contro il mondo di Tony Wakeford non è ancora giunta al capolinea.
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