L'olandese Elizabeth Esselink aka Solex è l'autrice di "Low Kick and Hard Bop" (Matador, 2001), senza esagerare tra le opere più importanti e caratteristiche (non per questo più conosciute) del decennio in corso, uno di quei lavori capaci di distillare il succo della musica contemporanea per creare pozioni magiche di suono, che non rifiutano il passato e al contempo vanno oltre.
"Low Kick" è un catalogo eterogeneo di note che delineano una nuova ed originale via contemporanea al pop, tracciata attraverso una tecnica personale che consiste nel campionare e incollare tra loro frammenti di musica (pescata dal suo negozio di dischi di seconda mano) dalle provenienze più disparate: se non proprio originalissima la tecnica del taglia-incolla, sfruttata già da numerosi artisti d'avanguardia, risulta freschissimo il risultato, privo di quella pesantezza e di quell'introversione tipiche dei lavori di pura ricerca, risultato che a orecchi disattenti potrebbe sembrare la logica conseguenza dello scrivere semplici canzoni: ed è proprio in questo mascherare la complessità dietro un velo dalle sembianze pop che si cela il vero genio di Solex.
Un buon assaggio si ha già con la prima, omonima traccia, che affianca una barcollante armonica rimediata da buon blues d'annata a ritmi elettronici pulsanti e alla squillante voce di Elizabeth, prima di finire in un buco nero di tastiere; la palma d'oro del disco va a "Have you no shame, girl?", caratterizzato da un incedere vocale meraviglioso e da una base ricca di strumenti in sotto-sottofondo, per un effetto complessivo che ricorda per più di una cosa il primo Beck; leggere assonanze con gli El Guapo (battuti sul tempo, precisiamo...) si hanno invece in "Shoot shoot!", melodia deviata, cupa e elegante in cui è forte e ossessivo il suono delle tastiere; non si contano le filastrocche sintetiche che Miss Solex riesce a creare, contornate da campanelli e simil-strumenti giocattolo ("Mere Imposters"), accordi semplicissimi di chitarra e rumorini vari ("Ololo") e trombette che sembrano uscite da un film di Totò ("Good comrades go to heaven").
Entusiasmanti anche il Future spaghetti western sound di "You say potato, I say aardappel", il rock n' roll abortito di "Comely Row" (la più punk, a suo modo, del disco); o ancora "Caienne" e "Honey (Amsterdam is not L.A.)", che sprizzano freschezza da tutti i pori, e "Not a hoot!", una danza della pioggia ballata da indiani emigrati in Giappone.
Splendide anche le esibizioni dal vivo dove le canzoni mantengono l'ossatura ma cambiano pelle come serpenti, essendo suonate da persone in carne ed ossa (attualmente in due, una batterista e Elizabeth stessa) e non da campionatori e macchine varie, come sul disco.
Un disco da avere per bellezza e importanza storica ancor prima che faccia storia, e un chiaro esempio di come la musica non abbia già detto tutto: non c'è limite alla creatività, basta possederla.
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