Solex. “Solex vs. The Hitmeister”. Matador. 1998. Disco fuori dalle mode, dai bei modi. Una combinazione inusuale di beats, samples, voce e creatività.
Il nome “Solex” viene dal “Velo Solex”, curioso bici-motore prodotto da un’azienda francese nel dopoguerra e commercializzato fino alla fine degli anni ottanta, riapparso, dal 1993 al 2003, in Ungheria e in Cina.
“Solex vs. The Hitmeister” è il debut album dell’olandesina, classe ’65, Elisabeth Esselink, proprietaria del Dutch Records, negozio di dischi usati in Amsterdam. In quella “cava sonora” la One Girl Band reperisce e campiona suoni, soprattutto acustici, e frammenti minimi di tracce per poi trattarli e ricomporli in forma di canzoni. Il suo patchwork, prevede la costruzione della trama attraverso i campionamenti, su cui, a volte, fa suonare una batterista e, qua e là un chitarrista. Nei suoi impasti i samples prevalgono sui riffs, i grooves catturati sulle drum machines, le tastiere scampanellanti sulle sottolineature d’organo, le linee di basso rubate sui fiati. I ritmi, vero cuore delle composizioni, sono sfuggenti, vacillanti, a volte sincopati; abbondano in saliscendi.
Il suo stile è astratto e surreale. Il suo costruttivismo è lirico. I suoi collages musicali sono condotti sempre alla sintesi da una propensione idilliaca. Risulta spontaneo parlare di “Concept”, per quanto strano. I contenuti sono diversi da un quadro sonoro all’altro, ma v’è una unità di fondo, pur nell’artifizio ricorrente, priva di retorica. Quadri mai epici, mai modaioli, scevri da norme e convenzioni, sempre avventurosi. Prodotti di un idioma autoctono.
Il suo genere musicale, allora, è l’Indie: Indie Electronic, Indie Pop, Indie Rock. I riferimenti potrebbero essere questi: Beck, Stereolab, Bjork, Lamb, Foetus, Silver Apples o l’attitudine di DJ Shadow applicata su “Dummy” dei Portishead virato Brand New Heavies (Acid Jazz), resi edotti da Moby. Senza mai ridursi alla somma delle parti, le sue composizioni vivono in un mondo di fiabe, un po’ naif. Più fosforo, e colpetti, a mano aperta, al miocardio.
Il suo canto è lunare. Un filo di voce sussurante, labbra di luce di luna, sussulti d’usignolo cinguettante (senza civetteria), sempre a distanza dal microfono e in sottofondo. La eco rimanda ai gruppi vocali femminili sixties: Shangri-Las, Chordettes, Murmaids. Voce swingante e sognante, con timbro dai colori cristallini, intenta a salmodiare filastrocche e soliloqui invitanti. I testi, brevi, concisi, ermetici, ricchi di onomatopee, sono impostati come dialoghi fittizi tra un “Io” e un “Tu”.
Artigianato, non industria. Arte, non vita imitata: fiabesca, ricomponendo frammenti, avulsa al nightclubbing. Lo-Fi, o Post Lo-Fi. Non ha certo inventato lei il “Cut’n’Paste”, ma lo adotta in modo nuovo, con nuovi esiti inattesi. Il suo metodo, appronta una nuova progettazione estetica, che è il trionfo dell’espressività e della comunicatività, senza volerlo sembrare, con una naturalezza disarmante. Nell’opera prima, in nuce, c’è il già il genio che dilagherà in “Low Kick And hard Bop” e l’accentuarsi del gusto pop di “Laughing Stock”. Un velo di ironia e l’allegria percorrono e completano il tutto.
La sua composizione collagistica si fonda, in definitiva, su un linguaggio progressivamente autonomo, fatto di suoni, luce notturna e nottivaga. Tutto concorre a dipingere un mondo incantato, mobile, di lampi senza pioggia, dove ogni melodia è limpida. Inizio e fine si richiamano, l’universo è preso ai lati con gentilezza, senza strappi. Con favore cherubico. Musica della musica. Che attraversa paesaggi e prospettive.
Brani: Solex All Licketysplit meravigliosa, da qui bisogna partire e passare, poi i flussi di coscienza One Louder Solex, Solex Feels Lucky e la melodia semplice e incantatrice di Some Solex. L’album, nelle ultime tracce, va in direzione di un crescendo di velocità , ritmi e sonorità disturbate. Bellezza acerba che non ha bisogno di crescere e maturare. Non trascina, ma trasporta con piccoli incanti.
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