I Solstafir sono una band Islandese fautrice di un Doom Metal carico di pathos e tristezza. Il difetto terribile della band è quello di allungare il brodo.

Il disco si apre con la strumentale 78 Days In The Desert, splendido pezzo caratterizzato da un continuo susseguirsi di stacchi maestosi e immensi e fasi più intime. Il brano è ben rappresentativo del loro stile, e vi si ritrovano gran parte dei loro contenuti: chitarre sporchissime e lentamente, inesorabilmente incalzanti, come uno Tsunami che si staglia sullo sfondo e avanza con pigrizia; batteria essenziale con ben pochi tecnicismi e un basso che pare il rantolo disperato di un uomo in fin di vita. Manca solo un elemento, il loro apice, parlo della voce del loro frontman dal nome impronunciabile: Aðalbjörn Tryggvason: cantante dall'indubbio carisma e dalla grandissima voce, potente, calda, e al tempo stesso indice silente di instabilità emotiva e disperazione a livelli massimi. Il cantato è sempre pulito, anche se spesso si può ascoltare uno screaming urlato a piena voce e con rabbia, da maestro!

La title track è un piccolo capolavoro. Quelle rasoiate di chitarra colpiscono direttamente il cuore, quel ritmo forsennato ci fa venire voglia di scappare e nasconderci, quel crescendo onirico di disperazione e rabbia a massimi livelli è semplicemente spaventoso... fino al break centrale. L'atmosfera si rilassa, entra in gioco un organetto e la chitarra si limita ad arpeggiare con calma, supportata dal basso. La voce si fa dolce (chi pensava che l'islandese potesse essere dolce? ascoltare per credere!) e rassegnata, come la ninna nanna di una madre al figlio malato di cancro, come una moglie che parla al marito in fin di vita. E all'improvviso la tensione si scarica, e inizia una parte furiosamente heavy, una rabbia irreale che si sprigiona da un drumming improvvisamente cupo e tribale e dalle chitarre che sembrano raddoppiare il volume di fuoco, da quell'urlo portentoso che arriva alla fine, che ci fa capire la vanità di tutto quel dolore: Í dögun birtist þu!! (the coming of the dawn, non dimentichiamo che lì in Islanda di sole ce n'è ben poco per 6 mesi all'anno!). La conclusione tastieristica ci lascia con le lacrime agli occhi.

Pale Rider prosegue il discorso di Kold ma lo fa con meno carisma e in toni più heavy, mentre She Destroys Again presenta una partitura più rockeggiante, ma meno elabroata e incisiva rispetto agli altri pezzi. Entrambi i pezzi sono capaci di stremare l'ascoltatore in quanto ad impatto sonoro.

Con Necrologue il disco riguadagna moltissimo in termini di impatto emotivo. Il testo in inglese (che probabilmente potrebbe essere una sorta di messaggio d'addio di un suicida) è commovente e deprimente allo stesso tempo. Il basso che introduce il tutto sostiene eccezionalmente la melodia e la sorregge nei punti più deboli, arricchendo anche il brano di effetti sonori mixati, come vari reverse che aggiungono molto all'atmosfera generale. Nella parte centrale, dopo un inasprimento improvviso della voce la chitarra prende a soleggiare in maniera devastante, quasi richiamando le eco di una vita lontana, una vita felice. Il finale calmo poi raggiunge vette pazzesche. L'ascoltatore rimane lì, ad ascoltare quei versi malinconici finchè non giunge inaspettatamente "Maybe this is not the end, my friend, Maybe I will see you soon again". Si rimane paralizzati, come a dire "e questo ora che ha fatto?", e all'improvviso... la chitarra con dolcezza ricalca la melodia del pezzo in solitaria, la ripete, la addolcisce, per prepararci all'inevitabile e terribile tragica conclusione. Capolavoro.

World Void Of Souls è un brano a tinte quasi ambient, con una registrazione audio che testimonia la follia del protagonista, conteso tra una ricerca della luce solare e una testimonianza dell'esistenza di una fantomatica donna, che alla fine si rivela essere nientepopòdimeno che la allegria stessa. "Happiness DID exist".

Love Is The Devil è un brano leggermente più convenzionale e tecnico, con uno stile che può persino ricordare gli U2 alla lontanissima.

Il pezzo finale è il terzo capolavoro del disco: Goddess Of The Ages. Espande Kold, incorpora Necrologue e inserisce una voce dalla durezza impressionante. La chitarra fa male come non mai e si verifica l'inserimento meravigliosamente integrato di alcune distanti, siderali note di pianoforte che donano al brano delle tinte assolutamente commoventi, contrapposte ad una durezza heavy metal che crea uno splendido contrasto.

Un gran bel disco!

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