Guardando con gli occhi di un appassionato di musica del XXI secolo all'immenso repertorio musicale lasciatoci in quel periodo di massima grazia divina per il rock che è stata la prima metà degli anni '70, è difficile rendere a tutti i gruppi la giustizia che meriterebbero. In soli 5 anni il panorama musicale europeo è stato letteralmente travolto dai massimi capolavori di gente come Emerson Lake & Palmer, Pink Floyd, Gentle Giant, King Crimson, Yes, Genesis, Soft Machine, o dei nostrani PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Area e Battiato (se pensiamo a cosa ci hanno regalato di simile, per dire, i 5 anni del decennio appena passato, viene un po' di angoscia. Ma questo è un altro discorso).

In presenza di una simile mole musicale, a livello quantitativo e qualitativo, è fisiologico che certi fenomeni passino in secondo o terzo piano rispetto ai "giganti" del periodo. Anche se scavando un po' si scopre che certa gente ha ben poco da invidiare ai grandi nomi. È il caso di questo semi-sconosciuto quartetto olandese, che nel 1975 ha prodotto questo onesto, raffinato e godibilissimo lavoro a cavallo fra jazz-rock e progressive per la Rocket Records di Elton John. Il fatto che anche il raffinato pubblico di Debaser abbia finora snobbato alla grande questo gruppo non fa altro che dimostrare quanto questi quattro olandesi siano ingiustamente sottovalutati, pur avendo dato vita a un lavoro di levatura elevatissima.

I soli 10 minuti della prima traccia, "Chappaqua", valgono il prezzo del biglietto. È proprio grazie a questo piccolo gioiello dimenticato della decade 70ina, passato quasi per caso da un'emittente rock locale un paio di mesi fa, che ho scoperto l'esistenza del quartetto fiammingo. Un organo così squisitamente prog e l'onnipresente sax soprano di Tom Barlage la fanno da padroni nella prima parte di in un brano in forma A-B-A che riesce nell'ardua impresa di essere orecchiabilissimo senza mai diventare banale, e raffinato senza mai scadere nel manierismo fine a se stesso proprio di tanti gruppi a loro contemporanei. I fraseggi del sassofono si alternano alle evoluzioni tastieristiche di Willem Ennes, un virtuoso ingiustamente passato in secondo piano in un'epoca monopolizzata dalle prodezze di un certo Keith Emerson. La parte centrale del brano, introdotta da una breve cadenza sulle settime dal sapore fortemente classico, è governata da una sezione ritmica audace, un giro di basso pulsante in cui si incastra alla perfezione una ritmica sincopata di batteria di scuola tipicamente jazzistica.

È su questa sezione ritmica quasi arrogante che le tastiere e il sax abbozzano appena, in modo quasi impressionistico, delle brevi frasi, come delle leggere pennellate atte a completare una tela dai contorni ben scanditi. La forma romanza del pezzo è quindi chiusa da un atteso ritorno del primo tema, stavolta con un finale dal retrogusto trionfale affidato al sax. Un diamante di notevole fattura confezionato da quattro musicisti che dimostrano di non avere nulla da invidiare tecnicamente a Jon Anderson, Steve Howe e soci. E il valore dei nostri olandesi è dimostrato ancora più ampiamente in un brano come "Whirligig", con i suoi continui stop-and-go strumentali, i complessi temi scanditi all'unisono da synth e sax, gli stacchi armonicamente ostici, volutamente lasciati in sospeso e volutamente dissonanti, e soprattutto le ritmiche sofisticate e serrate seguite in modo impeccabile da un gruppo di musicisti che si prende tutto lo spazio necessario per dimostrare la propria intelligenza musicale e le proprie doti. Ancora una volta, senza mai cadere in scale vorticose e sconclusionate, e senza mai abbandonarsi a tecnicismi fini a se stessi, indiscussi sintomi di mancanza di creatività comuni a tanti altri gruppi.

Perché quindi manca la quinta stellina a questo disco che ho tanto osannato allora? Il motivo è semplice. Si tratta di un disco strumentalmente perfetto, ma talvolta a rovinare un lavoro di fattura tanto pregevole arriva la voce di Frankie Fish, accompagnata dai coretti tanto in stile Yes degli altri componenti. I coretti in stile Yes è meglio lasciarli agli Yes di Fragile e Close To The Edge, perché al di fuori del loro contesto naturale appaiono solo smaccatamente pop e rischiano di rovinare l'eccellente lavoro strumentale del gruppo. E forse in questa virata pop del gruppo in alcuni brani (sfacciatissima in un brano come "A Song For You", rilasciato come singolo in Europa, dove sembra di sentire un Anderson innamorato canticchiare una ballata sdolcinata da 3 minuti alla sua donna, con tanto di coretti di sottofondo) ha la sua responsabilità la Rocket Records stessa, influenzata nelle scelte dall'impostazione easy-listening tipica di Sir Elton John.

Il piattume vocale presente in alcuni brani, unito alla ricerca a tutti i costi della melodia di facile memorizzazione in brani come "Last Detail", o la già citata "A Song For You", sono piccoli nei in un lavoro raffinatissimo che avrebbe potuto essere una pietra miliare irraggiungibile di un'epoca al pari di un Trilogy o di un Foxtrot, se solo avesse dato piede libero alle prodezze strumentali dei musicisti senza forzare inutilmente la mano sull'aspetto melodico più "catchy".

Tutto sommato è un disco che ogni appassionato di musica prog, fusion e/o jazz-rock dovrebbe avere nella propria collezione. Pretesa un po' difficile da soddisfare, trattandosi di un disco introvabile al pari di un'araba fenice al giorno d'oggi. Ma un appassionato del genere non può assolutamente snobbare autentici gioielli come "Chappaqua" o "Whirligig".

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