Come un viaggio in solitaria nel deserto del Nebraska.
Suona un po' così questo disco del 2000 e anche l'approccio compositivo del gruppo, che di fatto è incarnato nel solo Jason Molina, è simile all'esperienza che si prova camminando in un deserto americano a 40° all'ombra, impugnando la sola chitarra e registrando le infinite sensazioni, i suoni nascosti dal vento, i rumori delle screpolature della terra, l'eco di campane lontane, il volo di gabbiani (avvoltoi?) alla ricerca di una qualsiasi meta. Il rock-folk-ambient di Molina si muove dunque lento e sinuoso, quasi fosse la colonna sonora di questo viaggio wimwendersiano desolato e malinconico, bello e disperato, fatto di silenzi centellinati come il vino buono e sorretto da una fragilità di fondo che ne fanno una vera pietra miliare del genere.
Otto canzoni, se così vogliamo chiamarle, lunghe e dilatate, che ti restano piacevolmente addosso come la sabbia nelle scarpe o il sale del mare sulla pelle.
L'ho visto 4 anni fa, quasi per caso, in un localaccio fumoso e decadente di Roma, lui solo, armato di chitarra ed è stato un concerto veramente incantevole e trascinante, con quello che significa il termine in questo contesto. Nessun bis, nessun ringraziamento, nessun discorso auto referenziale. Jason ripartì la sera stessa con un simil furgone semi scassato, di nuovo in viaggio verso altri orrizzonti di rocce e sabbia. Un grande.
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