Teenage Riot: perché l'anima del punk non è ancora morta, e meglio così.

The Crawl: Kim Gordon che canta sgraziata con quel filtro sottilmente nostalgico e balla e danza come una fatina in acido, ogniqualvolta non suona il basso.

'Cross the breeze: perché ogni stilema non esiste se non in quanto espressione; furia hardcore iconoclasta immersa in cupo acido paranoico. Questo pezzo esiste per essere suonato dal vivo.

Kissability: perché poche volte interpretazione femminile è stata più bella.

Trilogy: perché è questo magma frenetico e tagliente l'essenza di questo gruppo.

E' per questo che "Daydream Nation" è stato eseguito in maniera clamorosamente emozionante. Qui non si parla di quelle mummie dei Rolling Stones con le loro canzoncine patetiche che hanno senso solo per sigle di cellulari, qui si parla di un gruppo che pur ovviamente cambiando e invecchiando è ancora quello di 19 anni fa. Prima l'occhio da entomologo con cui rivela le feticistiche nevrosi borghesi degli anni '80, la classe eletta e osannata nel suo qualunquismo dall'era Reaganiana, l'era del sogno a occhi aperti appunto, sogno quantomai subdolo e viscido e pieno di lati oscuri.. lì sta il senso di ogni accenno melodico (quindi intrinsecamente da middle class) di Daydream Nation, accenno melodico devastato e frantumato da inevitabile psicosi... poi i brani di Rather Ripped: il ribadire la melodia e il ribadire l'essere comunque intellettuali di una certa estrazione, ma anche con uno stile che sottolinea ancora una distinzione critica, ciò che continua a renderli comunque stupefacenti; la differenza fra la prima e la seconda parte del concerto è perciò forte e palese, e a contraddistinguerla più di ogni altra cosa è la batteria di Steve Shelley, che mai come a questo concerto si è rivelata in tutta la sua immensa importanza: per tutto Daydream Nation, il suo suono è stato primariamente il suono tribale dei tom e del timpano, forte e profondo, dionisiaco, il suono rutilante del bisogno frustrato di una redenzione generazionale ormai impossibile, il correre parossistico di una volontà di libertà mai cosi impossibile. Nella seconda parte invece, la batteria si fa pacata, a definirla sono più che altro i piatti, accompagna con calma, quasi con dolcezza, non una soluzione e neanche una rassegnazione, ma una presa di coscienza distale, anche un invecchiamento forse, ma l'invecchiamento del musicista vero. Quello che legge e racconta la realtà, o almeno la SUA realtà, anche quando fa esercizio di stile. La differenza è netta e forte sì, ma ognuna delle due parti del concerto è fondamentale per capire l'altra, e dunque per capire questo gruppo: in questo sta la continuità, non nello stile, quanto più che altro nella necessità di due ambiti che hanno vissuto di momenti differenti e per questo non potevano che essere così diversi: sta nella viscerale onestà la continuità della loro storia.

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