Per Sonny Rollins il 1957 fu un anno davvero speciale. Le discografie gli accreditano ben quattordici uscite, tra studio e live. Fra tutti quei lavori, spicca questo "Way Out West", punto fermo non solo dell'anno, ma di tutta la sua carriera e, credo, del jazz nella sua portata mondiale.

Cosa ebbe di così determinate e singolare questo lavoro è cosa molto semplice da capire ascoltandolo, non altrettanto tentando di descriverlo. Innanzitutto l'idea di togliere quello che allora era considerato lo strumento ineludibile: il pianoforte, per lasciare la piena e sola espressività tonale al suo sassofono. Questa scelta risultò molto forte, ma consentì a Rollins di ricavare spazi inusitati, creando nuovi modelli sonori fatti sia di fraseggi principali, sia di frammenti di eloquente equilibrio sonoro, ricavati anche negli angoli più bui di una metrica sempre perfetta. Ed è proprio l'aspetto metrico ad essere un altro dei punti chiave di questo disco: la sezione ritmica composta dal fenomenale contrabbassista Ray Brown e dal pulito e intuitivo batterista Shelly Manne, ha saputo creare un tessuto di incredibile ed elegante ortodossia timbrica, sul quale consentire a Rollins di inserire, a proprio piacimento, una serie di assolo unici, nuovi, virtuosi e lapidari come solo lui poteva fare. Si tratta di spunti melodici dai sottili equilibri e dotati di un'efficacia passante di rara forza, tecnicismi impreziositi da un gusto dello sviluppo armonico che sa evidenziarsi tanto nel più azzardato fraseggio improvvisato, quanto in inconsuete e quasi miracolose linee melodiche di più diretto approccio.

In questo sviluppo tutto suo, il disco, pone fermi sei momenti. Momenti che non provano a rincorrersi o a mutuarsi l'uno nell'altro, ma spiccano nella loro leggibilità come universi a sé stante. Momenti che si pongono in auto elegia per essere fonte di ispirazione per il jazz e il jazz rock dei lustri a seguire. Saltano fuori una "Come, Gone" e una "I'm an Old Cowhand", monumenti a dimostrazione di come certo jazz possa divenire pulsazione viva e infinita nel tempo. Esplode nella magia "There Is No Greater Love", pagina di sublime formalità che si presta ad uno stuolo di letture su piani diversi, come dimostrato dalle decine di cover jazz, jazz rock e persino pop, ripetutesi negli anni. A dir poco nobile la sensibilità di rilettura di "Solitude", scritta da Duke Ellington nel 1934, sbarazzino e sbeffeggiante l'atto conclusivo della title track, che sembra voler dire: "Ecco, ora sapete quel che c'è da fare ..."

L'integrazione tra gli strumenti è totale in una girandola di raro affiatamento, giocato sull'intuizione, sull'accento, sulla dimostrazione che talvolta il "non fare" può avere più forza e più fascino del "fare".

Per l'aspetto tecnico il disco rasenta la perfezione e gli strumenti riescono ad essere focalizzati, individuati nella loro posizione esattamente come Rollins li volle mettere al momento della registrazione, dando al suono una fisicità e una presenza straordinaria.

Per tutto questo e, soprattutto, per quanto emotivamente questo disco può dare, non si può che parlare di pietra miliare.

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