Ma cosa vuoi che sia una palla da spiaggia? Ma che problemi vuoi che dia? Al massimo devi andare a recuperarla in mare, al massimo ti casca giù dal balcone e devi andare giù a prenderla, al massimo finisce sul culetto di qualche ragazza che passeggia sulla riva ma lì anzi si crea un’opportunità per attaccare bottone…
Beh, se dite così vuol dire che non avete mai giocato con “Kula World”, un malatissimo puzzle game per PlayStation che tutti ricordano per la sua difficoltà. Uscito nel 1998, avevo una demo con alcuni livelli, avevo provato a chiederlo in regalo nel 2000 ma non si trovava più, cosicché ho avuto modo di giocarci soltanto nel 2017 sul mio portatile grazie ad un emulatore, potendo così constatarne la difficoltà ma anche esaltarmi per essere riuscito a completare tutti i 150 livelli ordinari senza utilizzare nessun tutorial su YouTube, seppur con non poche bestemmie.
Una palla da spiaggia gonfiabile multicolore, diversa in ogni mondo, deve rotolare in un complesso sistema di blocchi sospesi nel vuoto per trovare una serie di chiavi per sbloccare l’uscita (una grossa X che bisogna far lampeggiare di verde), e lo deve fare in un arco di tempo piuttosto limitato. La palla ha chiaramente dei limiti negli spostamenti: si muove sempre in avanti lungo la stessa facciata, ha la possibilità di svoltare a destra e sinistra rimanendo sulla stessa facciata e può saltare in avanti di due “quadretti” in modo da raggiungere un altro blocco - sullo stesso piano o ad uno inferiore - ma non può spostarsi sulle facciate laterali perpendicolari, solo quando arriva ad uno spigolo può proseguire sulla facciata frontale perpendicolare e solo quando arriva su una base quadrata può da lì muoversi su una qualsiasi delle sezioni. Questo limite implica che il giocatore deve letteralmente aprire il cervello per capire come muoversi. Come posso arrivare a quella chiave laggiù? Che percorso devo seguire per poter arrivare su quel blocco? Da che punto e da che lato devo saltare? E ora come faccio a tornare indietro? Nella mente del giocatore si deve proprio ricostruire il reticolato visto da tutte le prospettive e bisogna immaginarsi tutti i possibili movimenti della palla. Di sicuro non si tratta di un gioco diseducativo; si discute sempre sull’influenza negativa che i videogiochi possono avere sui giovani, indirizzandoli verso l’aggressività e verso l’irrealtà, ricordo che i più anziani e bigotti sparavano sul mondo del videogame vere e proprie sentenze basate su nessun ragionamento ma solo sul pregiudizio, per loro il videogame era rincoglionimento puro senza attenuanti, una vera e propria fabbrica di mostri; questo titolo invece sviluppava la mente a 360°, in particolare sviluppava il senso dell’orientamento, della posizione, della prospettiva, della tridimensionalità, come anche, dal punto di vista psicologico, l’attitudine a vedere la realtà da posizioni diverse; sotto il profilo pedagogico credo che si potesse giudicare esattamente nella maniera opposta in cui vengono tuttora visti i videogame (d’altronde quelli erano gli anni in cui si leggeva sui giornali delle migliaia di copie di “Resident Evil 2” ritirate dal mercato per i contenuti eccessivamente violenti).
Ma il gioco aveva una difficoltà doppia o forse multipla, era doppiamente diabolico o forse di più: non bastassero la capillarità e il tempo limitato (solo parzialmente prolungabile raccogliendo le clessidre lungo il percorso) sul percorso si aggiungono una serie di tremendi ostacoli che rendono il gioco più figo ma anche molto insidioso. Dalle mine volanti alle spine che spuntano dal suolo, passando per i vortici appuntiti che saltano fino alle pillole che rallentano il gioco, ma il principale problema sono gli stessi blocchi su cui la palla deve camminare: quelli fragili che si frantumano al sol tocco, quelli ardenti su cui si può sostare giusto un millesimo di secondo, quelli ghiacciati su cui la palla scorre senza il controllo del joystick (anche fino a precipitare nel burrone), quelli mobili come piattaforme su cui bisogna saltare con la giusta scelta di tempo, quelli invisibili che il giocatore deve saper individuare mediante l’intuito per saltare su di essi e non nel fosso; si crea quindi un enigma in più, il giocatore deve capire come saltare, in che momento e in quale sequenza. Un ulteriore rompicapo è rappresentato dai teletrasporti e dai fasci laser, che funzionano spesso alternativamente, se ne accende uno e se ne spegne un altro, creando una sorta di ulteriore labirinto elettrico colorato, ed ecco che il giocatore si trova a trafficare con gli interruttori del rispettivo colore che li attivano e li disattivano, per andare alla piattaforma successiva nel caso dei teletrasporti e per non rimanere folgorato nel caso dei laser. Altro elemento concepito per creare confusione sono le frecce direzionali poste su alcuni blocchi, una volta raggiunto il blocco obbligano la palla a proseguire nella direzione indicata, rendendo ancora più difficile la scelta del percorso sul reticolato.
Ma i creatori hanno esagerato ulteriormente mettendo a dura prova anche la pazienza e la dedizione del giocatore: non si può salvare alla fine di ogni livello, lo si può fare solo dopo un tot di livelli e questo manda ulteriormente in bestia; già è difficile superare un livello e non sai se ci riuscirai di nuovo la prossima volta, in più se perdi tutti i punti non hai nemmeno l’agevolazione di poter ricominciare da quel livello, sei costretto a ripetere, magari faticando ancora, alcuni livelli precedenti; in tutta sincerità… “che palle!”
Quindi come possiamo definire “Kula World”? Un “multirompicapo”, una somma di rompicapi, un rompicapo nel rompicapo, un “rompipazienza”, “i labirinti del diavolo”, ci si può sbizzarrire con la fantasia per poter definire questo traumatico gioco.
Eppure era veramente bello, veramente ammaliante in tutto il suo incrocio di elementi, possiamo forse affermare che era più piacevole viverlo da spettatore che da giocatore in prima persona, sempre che al joystick ci fosse qualche vero e proprio mago dei videogame. Basti pensare alla grafica, che era davvero spettacolare e sembrava non risentire dei tempi, era nitida e dettagliata. Da amante dei colori dico che il caleidoscopio di colori offerti è un biglietto da visita non indifferente. Dopo un tot di livelli poi si assisteva al cambio di ambientazione, c’era quella egizia e desertica, quella nebbiosa, quella violacea ed oscura, quella glaciale, quella notturna e rocciosa, quella orientale, ogni ambientazione era dotata della sua magia. I colori però splendevano al massimo nei bonus level - ai quali si accedeva dopo aver raccolto cinque frutti - livelli in cui lo scopo era far accendere tutti i blocchi in un tempo limitato per incrementare notevolmente il punteggio (in caso di cattura, caduta o tempo scaduto non si guadagnava nulla): questi erano dei veri e propri labirinti psichedelici con luci multicolor dai toni forti e allucinogeni, sembravano una discoteca sospesa nel vuoto, con la musica elettronica e le pillole di lsd che creavano davvero un’atmosfera da rave, era bello vedere i blocchi passare dal viola al giallo più acceso.
E anche la musica era di alto livello, sospesa fra l’ambient, l’elettronica e la world contribuiva significativamente a rendere più che mai psichedelica l’atmosfera.
Poi c’è un elemento nel gioco che si può definire anacronistico: il punteggio. Il punteggio era una prerogativa dei giochi anni ’80, della vecchia era Nintendo, in quell’epoca lo trovavamo in qualsiasi tipo di gioco, perfino dove era meno utile come nei platform d’avventura; gli anni ’90 e la nuova generazione lo hanno letteralmente mandato in pensione ma nell’ambito di un puzzle game acquisisce un significato, così raccogliere monetine, gemme, frutti e risparmiare tempo costituisce una prova in più per il giocatore, che può così mettersi in competizione con se stesso, non a caso è prevista anche una modalità a tempo. Ma vista la difficoltà del gioco viene da pensare che la maggior parte dei giocatori non avesse più di tanto lo sbatti di tentare di racimolare record, già ostinarsi ad andare avanti con i livelli era una fatica enorme che non invogliava a caricarsi ulteriori pesi sulle spalle.
Quindi pur con tutte le bestemmie annesse il gioco era alla fine un capolavoro di rara bellezza, colorato, psichedelico, ipnotico, enigmatico e fastidioso, un mix di elementi certamente creato per rimanere nella memoria, non nell’ombra.
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