Dedicata con infinita stima e affetto allo User De Marga,

compagno nella maniacale passione per Sophìa e Robin Proper-Sheppard (e il trio che tutto precedette)

Lo scorso anno (2020) i Sophia, con residenza spostata a Berlino e Play It Again Sam (PIAS) come nuovo alloggio discografico hanno dato vita al nuovo album "Holding On / Letting Go", e i cambiamenti si sentono.

In un flash back temporale la prima critica mossa al Sophia collective (quello di "Fixed Water" e "The Infinite Circle") fu quella di una eccessiva conformità del materiale... e d'altra parte quel materiale intessè opere che per densità emotiva e capacità di insinuarsi nelle pieghe dell'anima ebbe la potenza di un pugno nello stomaco... o l'affilatezza di una lama nel cuore. Dopo che il mini-live "De Natchen" ruppe la continuità con pezzi memorabili come "Ship in the Sand", "The Sea" e la fantastica cover di "Jealous Guy" tutta la successiva produzione discografica di Robin e del Sophia Collective spostò il baricentro sul lato opposto, quello della scrittura in senso variegato e, ahimè, non sempre pregevole: "People Are Like Season" racchiude le sopraffine "Another Trauma", "Swept Back", "I Left You" e "Oh My Love" (il nuovo corso da alta classifica dimenticato), ma anche episodi ambivalenti come "Darkness (Another Shade in Your Black)", e soprattutto "If Something is Gonna Come" il tutto centrato su di una varietà ondivaga che rasenta la frammentazione - ciononostante "Seasons" resta il disco più venduto, segno che il pubblico ha ragione, il recensore un po' meno. Quel che segue è forse il disco meno riuscito, "Technology Won't Save Us", (riferimenti dai Calexico ai Mogwai: appunto uno spettro davvero troppo ampio o più esplicitamente, un album che va in frantumi), l'elaborato (e solo parzialmente riuscito) tentativo di riparazione "There Are No Goodbies", e l'inizio di un affievolirsi della speranza sulla autentica capacità di canalizzare il comunque enorme talento di Robin Proper-Sheppard. Se non fosse stato per il salto di qualità ampiamente percepibile del recentissimo ritorno sulle scene il successivo (ed atteso dopo un tempo infinito) "As We Make Our Way (Unknow Harbours)" avrebbe rischiato di suggellare la fine anticipata di una storia bellissima, intrisa di malinconia, infiorata di ballate indimenticabili e avvolgenti in un chiaroscuro infinito. Che Robin, Jeff Townsin, Will Foster, Adam Franklin più il quartetto d'archi e gli altri strumenti orchestrali e synth vari, stessero varcando l'arco di una nuova fase ispirativa però è testimoniato esattamente da questo triplo album live: 3xLp, o 3xCD. Il titolo non è molto differente dall'ultimo lavoro, quasi a ribadire che questo, e non "what the audience wants" è il nuovo corsus della band. Dire che "The Live Recordings" è il semplice secondo album live complicherebbe e falserebbe l'analisi, per la differenza dei formati e i periodi coperti, e perchè nemmeno si tratta del "vero" secondo live album: anche volendo escludere "Music for Picnics", resta l'allegato "The Valentine's Days" con chitarra, voce quartetto d'archi e applausi... recentemente ristampato in 2xLp rosso. In ogni caso, su XL Repubblica del 2017 Tobia d'Onofrio riassume così il passato e presente di Robin: "A molti sarà capitato di curare il proprio cuore infranto con le struggenti canzoni di Sophia (...). Pochissimi conosceranno invece il precedente gruppo del frontman di San Diego, The God Machine, una seminale band di culto in attività dal ‘91 al ‘95. Questo power trio, giunto dalla California negli squat londinesi, si fece notare sfoggiando un sound maestoso, spesso saturo di distorsioni e feedback, che metteva insieme, in uno stile unico, metal e post-punk, noise e slo-core, disegnando cattedrali gotiche in deserti psichedelici, come se i Led Zeppelin cortocircuitassero con i Bauhaus". Quindi, letteralmente una esistenza dopo, "As We Make Our Way (The Live Recordings)" restituisce nella forma più consona a Robin, quella live, una summa dell'intera produzione di Sophia. Lievemente deludente la scelta di riprodurre live nel primo CD per intero "As We Make Our Way", con le canzoni nello stesso ordine: troppo perfettamente aderenti all'originale, ad eccezione di una stupenda "Baby Hold On" in positivo, e di una "It's Easy To Be Lonely" che con il drumming di Townsin (anzichè di Isolde Lasoen, e conseguente impoverimento in potenza e scansione ritmica) in negativo: bilancia le sorti una "The Drifter" che non delude mai. Scivolato via sul lettore il primo - più recente - album, sono il secondo e il terzo a dare motivi di grandi, talvolta grandissime emozioni. Il secondo disco si apre con una sequenza di classici: "So Slow" (da cui iniziò a snodarsi il racconto concettuale dei Sophia), "If Only", "Oh My Love" (megawatt pompati assai) e una quasi impalpabile "There Are No Goodbies". Peraltro unica canzone a rappresentare l'omonimo album. La facciata B è un capolavoro di potenza e densità di sound chitarristico: "Desert Song N 2" apre con lentezza e indulgenza malinconica le danze, per giungere alla consueta esplosione strumentale... segue una magmatica versione di "Darkness" che per bellezza e perfezione fa dimenticare di colpo la registrazione in studio: non ci sono paragoni, qui sembra di essere di fronte ad una versione trasfigurata dei Nine Inch Nails. Non si sono ancora spenti gli echi e i crepitii di "Darkness" che parte il superclassico "The River Song", con la coda ripetuta all'infinito e l'eco chitarristico esausto. Dopo una simile prova di intensità ci si chiede il disco n. 3 cosa altro potrà riservare: un mix di malinconia, introspezione, attitudine alla divagazione e raffinatezza. A partire dalla potente "Bad Man", alla addensata e orchestrata "Last Night I Had A Dream" alla dolceamara "Razorblades", fino al pezzo scelto concettualmente per la chiusura, "Directionless". Una prova estenuante, per lunghezza, e tuttavia che si ascolta instancabilmente, ancora e ancora...

Quindi, non chiediamoci più "qual'è stato il turning point dal 1994 al 1996, dall'ultimo sorriso in un luogo mortifero alle acque stagnanti": abbiamo i Sophia, la realtà, il qui e ora. Il resto non conta.

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