Evidentemente la classicità in taluni casi costituisce un limite espressivo. L'ancoramento a tale dimensione estetica ed esistenziale non sempre è garanzia di buona riuscita di un'opera. Scomodando le categorie dialettiche potremmo dire che lo schema che alloggia a livello mentale, sottostante alle canzoni racchiuse in quest'album è sintetizzabile nuovamente nella formula tesi-antitesi-sintesi. Il probelma è che la mente in cui esso è attivo appartiuene al creatore dei The God Machine, e che sebbene costui abbia ripetutamente affermato che il cambiamento di rotta dopo la dolorosissima deflagrazione di quel trio meraviglioso abbia allontanato ogni ipotetico ritorno a quella modalità compositiva e produttiva si avverte in fondo l'eco di una insopprimibile matrice fondativa, come un reperto con lo sguardo fisso sull'osservatore (per citare Novalis). A quanto pare l'assenza di un pattern espressivo dotato di una sua stabilità spazio-temporale è destinata a fare da contrappunto alla solidità dell'incredibile intreccio Loop-Cure-Jane's Addiction che in maniera appunto icasticamente monumentale codificò la creazione dell'opus metafisico a firma The God Machine. Tanto compiute nella loro architettura armonica e nel loro possente impianto ritmico-sonoro quanto dotate della trasmissibilità di un senso di infinito allora quanto tutti i lavori di Sophia appaiono maggiormente duttili e talvolta inutilmente fluidi (nel senso della labilità dei contorni stilistici), ciascuno con troppi punti deboli, tutti immancabilmente incompiuti sotto il profilo compositivo, paradossalmente troppo pesanti e quindi poco fruibili per il pubblico midstream (per dire, un pubblico di confine tra chi ascolta ad esempio gli Interpol, i Mogwai, i Placebo...). L'anticipazione sul bandcamp nel febbraio 2015 di "It's Easy To Be Lonely" aveva aperto un vorticoso senso di speranza: un pezzo connotato da un fantastico crescendo emotivo, dotato di un'apertura armonica pressochè infinita, accogliente moltissimi echi, compresi quelli del segmento Sophia maggiormente a contatto con l'esperienza precedente, un brano a struttura circolare ma non ossessivo, (r)accoglieva di tutto: gli scenari più arcani dei Sophia del "Cerchio Infinito" ("Woman", "I'd Rather") come la "Pioggia Oceanica" di Echo And The Bunnymen, linea di batteria cadenzata e ipnotica (suonata da Isolde Lasoen) in crescendo e corale posto alla fine: meraviglioso. Il vinile arancio trasparente Ltd. Ed. è sul piatto: l'attacco pianistico di "Unknown Harbours" riporta alla memoria l'incipit di quel capolavoro epocale che fu "Mellon Collie And The Infinite Sadness" dei Pumpkins... nitido gioiello risplendente di luce melanconica. La successiva "Resisting" sembra incanalare le sorti di un (ipotetico) nuovo corso dei Sophia su altre coordinate, cristallizzando un sound inedito ed irradiando un mood stellare che fa pensare "forse è la volta buona": chitarre distorte alla My Bloody Valentine avvolgono una eterea tessitura armonica (nuovamente) alla Echo And The Bunnymen (sembra il drumming di "All My Colours") ovvero rievocano le atmosfere cadenzate e ipnotiche di "The Desert Song"... considerati i precursori dell'opera ci sarebbe di che sperare ("Resisting" è stata addirittura definita "la risurrezione dei God Machine")... invece ciò che segue è una pur splendida collection di ballads alla Sophia, "The Drifter", forse la migliore dell'album sotto il profilo qualitativo, con un tocco pianistico "lunare", di presa immediata. Le cose vanno meno bene quando destano altre reminescenze: se "St. Tropez / The Hustle" riallinea in maniera imprevista ritmica e sound a "Darkness (Another Shade In Your Black") "California" e "Blame" richiamano alla mente addirittura "Holidays Are Nice". "Baby Hold On" e "Don't Ask" riportano alle coordinate stilistiche il lavoro ai momenti interlocutori di "There Are No Goodbyes" ("Storm Clouds" in modo particolare)... non ci sono altre tracce dei pregressi Sophia, nè quelli troppo omogenei di quel "Fixed Water" che "vendette più dei due album dei God Machine messi insieme..." nè tantomeno quelli di "De Nachten", gioiellino live forse insuperabile. I riflettori stanno per spegnersi, dopo una estenuante attesa che Robin (tra il valore altissimo dei suoi God Machine e la matrice cantautorale memore della straziante sofferenza esistenziale di Nick Drake) dia un segno, deciso e organicamente coerente del suo peraltro immenso talento compositivo. Invece la discontinuità ancora una volta limita il valore intrinseco del disco, anche se giusto un attimo prima del buio partono le note della conclusiva, e meravigliosamente ecoica "It's Easy To Be Lonely". Ma forse è troppo tardi anche per chiudere il cerchio, forse ancora una volta non basta.

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