Sembra che il perfezionista Proper-Sheppard non riesca a ritrovare più la perfezione perduta, o almeno si trovi in un guado particolarmente difficoltoso.
Sono ormai passati 17 anni da quel 21 gennaio 1991 in cui un gruppo americano trasferitosi da poco in Regno Unito si esibiva per la prima volta. Quel trio, meglio noto come The God Machine, avrebbe immediatamente centrato un obiettivo con capacità e talento strabilianti: non innovazione, né avanguardia nel senso usuale del termine: i God Machine avrebbero ridisegnato la fisionomia della classicità, segnando un punto di non ritorno nella storia del Rock. "La nostra musica può darvi i peggiori incubi, o lanciarvi nell'estasi più affascinante. Solitamente si verifica questa seconda opzione. Ci accorgiamo che il nostro pubblico smette di ballare: rimangono tutti in piedi, a bocca aperta, in estasi". È la celebre frase di Roger Waters dei Pink Floyd; adattabile all'ascolto di quelle canzoni, art-noise-metal con inflessioni industrial e interludi sinfonici o acustici, in cui la voce si fondeva in un tutt'uno con gli strumenti, conducendo verso un altrove l'ascoltatore. Irrintracciabili le influenze, che pure sicuramente ci sono. Sophia, dopo aver messo a segno un capolavoro all'esordio come "Fixed Water" non hanno più raggiunto quell'intensità e quel lirismo: troppo impegnativo come termine di paragone. Impossibile poi coniugare eclettismo e classicità troppo a lungo, sia perché è impossibile dimenticare gli indimenticabili God Machine, sia perché probabilmente l'idea di musica di Robin Proper-Sheppard è troppo legata a quella fase della sua personale storia. L'equilibrio, mantenuto in "The Infinite Circle", si è quindi rotto, alla ricerca di una dimensione stilistica ampliata nel corso degli anni 2000. Ciò che si avvertiva in "People Are Like Seasons" viene confermato come il nuovo corso del gruppo.
"Technology Won't Save Us" sposta (finalmente) il baricentro tematico dall'ambito intimistico di Sheppard a quello del mondo esterno, prendendo forma in una visione disillusa, malinconica, sofferta, a tratti quasi apocalittica ma sempre profondamente poetica. Alcuni gioielli ci sono, altro è purtroppo perfettibile. "Where Are You Now" è la ballad Sophia style classica; "Pace", singolo apripista, ripercorre ritmiche e mood di "Oh My Love", che però è più ispirata e brillante ed è stata pubblicata tre anni fa. Superflua. In "Lost (She Believed in Angels)" si può sentire come il drumming di Jeff Townsin sia praticamente identico a quello di Ron Austin, e il cantato di Sheppard riacquisti la tonalità e la timbrica del vocalist dei God Machine, ma nonostante ricompattamento di sound-vocalità Robin indulge ancora nelle auto-citazioni (questa volta è la madre negli ultimi istanti di vita a ispirare ricordi e tristezza). Forse Robin P.S. è troppo tormentato da un passato che non passa (ma nemmeno torna) e da cui cerca quasi "ossessivamente" di liberarsi, forse quel passato assume sembianze ingannevoli. Quel passato non sono la madre, né Jimmi Fernandez, non solo loro, quel passato è appunto (pare sempre più plausibile) l'ispirazione e il talento che non hanno più trovato sbocchi adeguati dopo quel 1993. Una statura interiore cui non corrispondono mezzi né contenitori (sonici) adeguati.
"Big City Rot", notturna e scarna, quasi sussurrata, ritrae uno scenario post-apocalittico vibrante dello stesso lirismo di "It's All Over", ma quasi senza melodia, come a dire incolore o atona. "Birds" è più morbida e soffusa di suggestioni melodiche, un altro ottimo esempio del "nuovo sound" dei Sophia: limpida e soffice, arricchita dai campionamenti ambient (in particolare lo scorrere del fiume Okkervil). La relativa novità sono i ben tre episodi strumentali: "Twilight at the Hotel Moscow" è un altro quadro crepuscolare, inebriante, balcanico e quasi post-rock, se non fosse per l'inevitabile assolo di chitarra che irrompe in un delicato equilibrio armonico, in parte sciupandolo; "Theme for the May Queens No 3" è una furiosa session punk-core, ritmato e distorto mai come prima, a ricordare esplicitamente che i May Queens (progetto parallelo di Proper) sono "i nuovi God Machine". Invece non è così. Perché è da due episodi, i migliori dell'album, che si può dedurre chi siano (o stiano per diventare) in realtà i "nuovi God Machine". Il primo è la title-track, un imponente pezzo strumentale, composta in stile narrativo, arpeggiata prima, sinfonica poi e post-rock infine. Il fatto cui fa riferimento è il tragico incidente in cui persero la vita un bambino e il padre, sorpresi da una mareggiata mentre passeggiavano lungo la costa della Cumbria; sebbene l'uomo avesse allertato i soccorsi con il cellulare questi tardarono ad arrivare, con il tragico finale cui allude il titolo "Technology Won't Save Us". Impressionante il potere evocativo, i suoni delicati e armonici della prima fase sembrano ritrarre lo scenario di sole ed erba, le percussioni e gli archi della seconda gettano minacciose nubi e portano lo sguardo alla marea montante, infondendo un sentimento di inquietudine, quindi paura, il climax si raggiunge nella terza fase, in cui il muro di suono delle chitarre elettriche (citati i Mogwaii) sembra investire emotivamente l'ascoltatore come un muro d'acqua, e la paura diviene terrore. Epica e tragica, triste ed estremamente potente, lascia senza fiato. Ma bisogna attendere gli alti e bassi di un album ancora incompiuto per ritrovare quasi alla fine l'altra perla di questa collezione: "P.1/P.2 (Cherry Trees and Debt Collectors)": il senso epico, quella tessitura armonica, quei vocalizzi acuti, quel suono chitarristico così ossessivo ed ipnotico, con quel drumming cadenzato e alienante, danno la sensazione ora netta, di essere di nuovo in un altrove.
Back to 1992, di nuovo al Secondo Piano.
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