Se di solito chi punta in modo massiccio sull'immagine lo fa per mettere una pezza su una creatività non proprio straripante, nel caso Sopor Aeternus si può parlare di vera eccezione. Mai come in questo caso, di fatto, la forma coincide con la sostanza, l'orrore e la repulsione che scaturiscono dall'iconografia adottata da questo artista (userò il maschile per comodità, visto che non è ben chiaro se si tratti di un maschietto o di una femminuccia) si fonde con l'orrore e la repulsione che suscitano le immagini altrettanto terribili evocate da questa musica straziante ed angosciosa.
Crisi di identità, disgregazione dell'Io, rigetto di sé e del proprio corpo, paura e bisogno degli altri, solitudine come condanna da scontare e al tempo stesso come estrema consolazione e fuga da un mondo ostile, desiderio di Morte, intesa come pace dei sensi, annullamento delle percezioni e quindi come unico rifugio dal dolore inevitabile che la vita porta con sé. Una tristezza infinita, quasi cosmica, che parte dai travagli dell'anima e va ad ammantare l'universo intero con il suo dolore, straripante ed incontenibile. Tutto è estremizzato, ai limiti del grottesco e della farsa, filtrato attraverso dotti riferimenti letterari, alla mitologia greca e al folclore popolare, portato avanti con una coerenza concettuale e una cognizione di causa che atterriscono, tanto da convincerci che non si tratti solo di una posa volta ad accattivarsi la simpatia di qualche adolescente in cerca di sensazioni forti.
Seppur con questo "Songs from the Inverted Womb" non di tocchi l'intensità e l'eleganza raggiunte con i precedenti "Dead Lover's Sarabande" parte prima e seconda, il livello qualitativo del prodotto rimane stellare. Non rimarranno di certo delusi i fan della band, come del resto tutti coloro che amano le atmosfere più criptiche e decadenti.
Da un punto di vista strettamente musicale, l'opera, estremamente curata e ispirata (ma come potrebbe essere altrimenti?), va a levigare e a portare ad ulteriori livelli di agonia quella sorta di musica da camera orrorifica che si è andata a perfezionare di album in album, fino a toccare l'apice formale nei due episodi sopra citati.
Il sound guadagna in compattezza, punta all'essenziale, e a testimoniare un passato ben più ricco e vario (dal dark delle origini, fino all'aperture a sonorità folk, medioevali ed etniche delle opere di mezzo), rimangono solo gli arrangiamenti un po' barocchi, il rintocco funebre delle campane, la marcia dolente delle viole, dei violini e dei tromboni. La chitarra, ultimo baluardo di un passato folk, viene qui totalmente estromessa, ma in compenso l'Ensemble of Shadows si viene ad arricchire di un batterista in carne ed ossa, cosa che conferisce un maggiore dinamismo ai brani.
Si ha l'impressione che con questa operazione di sottrazione la musica voglia svincolarsi definitivamente da ogni contaminazione "terrena", e puntare ad una dimensione metafisica, mistica, impalpabile, fuori dal tempo e dai generi musicali, dove gli unici punti di riferimento possono essere le atmosfere apocalittiche della nera sacerdotessa Nico e il nevrotico canto straziato di Rozz Williams dei Christian Death, da sempre fonti d'ispirazione del progetto.
Ma il teatrino dell'agonia che Anna/Varney è in grado di allestire è davvero qualcosa che va oltre l'arte oscura dei personaggi sopra citati, una performance terribile che trascende la dimensione strettamente musicale, per divenire un'esperienza a metà strada fra una seduta psicoanalitica ed una seduta spiritica, una sorta di transfert del dolore nel dolore, in cui sono riscontrabili delle forti analogie con il Butoh, l'allucinante danza giapponese a cui l'artista si è ispirato anche da un punto di vista strettamente iconografico: allo stesso modo in cui il corpo, non senza sforzi, si contorce, striscia a terra, si dimena, occupando e facendo proprio lo spazio circostante, il canto straziato ed agonizzante di Anna/Varney compie evoluzioni innaturali volte a dipingere simbolici paesaggi interiori, a tessere una tela capace di ammantare l'ascoltatore e di condurlo in luoghi altri, oscuri, dove non vi è luce né speranza. Dove la Morte, come recita il testo di "Résumé", è addirittura un lusso ("How I wish that I was dead and rest in final peace. . . but even the luxury of death can't cure the wounds time cannot heal...").
Lo spettro delle emozioni qui descritte, come intuibile, oscilla dal nero al grigio scuro, dall'agonia alla disperazione, passando dalla follia, fino alla rassegnazione e l'abbandono al proprio male e al proprio dolore. Un'atmosfera fosca, estraniante, a tratti disturbante, a tratti misteriosa. E poi quella voce, indefinibile, ambigua, androgina, asessuata, che sembra provenire da un altro mondo. Grida sgraziate, canti dolenti, sommessi singhiozzi: una prova vocale che non si misura in ottave ma in gradi di disperazione.
Se il tema dei già citati due capitoli di "Dead Lover''s Sarabande" era l'Amore (l'amore tormentato, of corse, quello non corrisposto, quello perduto, quello che porta alla solitudine e ai morsi di una sofferenza inconsolabile), in questo "Songs from Inverted Womb" ritorna il tema prediletto fin dai tempi di "Todeswunsch": il desiderio di Morte.
L'utero invertito, di fatto, non costituisce solamente l'ennesima allusione all'ambiguità sessuale (non solo psichica, ma anche fisica, a stare a certe fonti) che è da sempre l'ossessione portante del progetto. L'utero invertito è anche, simbolicamente, il luogo dove ha termine la vita. Se di fatto l'utero è l'anticamera di essa, il luogo confortevole dove ancora non vi è dolore ed afflizione, il suo opposto è certamente la tomba, visto come rifugio finale dove trovare pace e tranquillità (concetto che verrà superato, in negativo naturalmente, con il successivo "Es Reiten die Toten so Schnell", dove addirittura viene ipotizzata, mediante la simbologia del vampiro, un'eternità di Non-morte, dove appunto la pace non verrà mai raggiunta, e dove, come recita un brano: "The silence of the graves is not silence at all").
La vita, quindi, come condanna e non come dono. Premessa da cui scaturisce una visione della Madre che non ha niente a che fare con la concezione comune che la vede come donatrice di vita, a cui dobbiamo tutto, ma piuttosto la tratteggia come l'artefice di tutti i mali, colei che ci mette al mondo e ci condanna alle sofferenze della vita. E proprio la Madre, o meglio il traumatico rapporto genitore-figlio (non si escludono riferimenti autobiografici) diviene uno dei temi portanti dell'album. Così recita l'introduttiva "Something Wicked this Way Comes": "Maybe this is the saddest story, it is full of pain and hurt, because, of all the names and phrases of this mortal world, there is only one that I fear more than any other, and this most terrifyng term is the one of Mother".
Il capovolgimento del rapporto di valore "nascita-morte", il tema dell'infanzia, il conflitto edipico invertito divengono il vero filo conduttore che lega i diversi brani, convinzione corroborata dall'inquietante dedica dell'album: "Dedicated to the Memory and the Ressurrection of Little Seven, who died at the age of six".
Un mondo quindi popolato da bambini che uccidono esasperati la madre ("There was a Country by the Sea"), padri che uccidono i propri figli ("Saturn Devouring his Children"), piccole bare bianche dal contenuto facilmente intuibile ("Tales from the Inverted Womb"). Da segnalare la straziante preghiera di "...And Bringer of Sadness", in cui una voce singhiozzante chiede al suo dio di porre fine alla propria vita, la desolante rivisitazione di "May I Kiss your Wounds?" (già presente in "The Inexperienced Spiral Traveller", qui riarrangiata con il pianoforte) e la già citata "There was a Country by the Sea", l'apice dell'album (se non dell'intera carriera): undici minuti terribili in cui si sviluppa, in modo teatrale e visionario, una storia davvero macabra, degna del miglior Edgar A. Poe.
L'unica pecca dell'album rinvenibile può essere quindi una innegabile pesantezza legata ai temi, non di certo allegri (che costringono a toccarsi i santissimi dal primo all'ultimo istante), e alle atmosfere eccessivamente oppressive e ridondanti, che vanno ben oltre i canoni della musica gotica, e che possono rendere assai faticoso l'ascolto (data anche la mole estesa dell'album, che tocca quasi gli ottanta minuti).
Senz'altro consigliato a quelli che "la morte è quella cosa che, più ce n'è, meglio è".
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