No, non è un vecchio disco di Anna Oxa. No, a scapito della copertina, non ci canta nemmeno una signorina su questo disco. E sebbene il nome della band possa a colpo d'orecchio ricordare per vaghe assonanze il monicker Sopor Aeternus, questo disco non è nemmeno niente di particolarmente doloroso per i nostri padiglioni auricolari.

I Soror Dolorosa sono una band francese e il loro leader è Andy Julia, personaggio più o meno noto negli ambienti ruggenti del post-black transalpino, avendo egli suonato la batteria in Peste Noir e curato la grafica dei booklet di opere di formazioni di spicco nella scena come Alcest e Les Discrets. E la cosa in effetti solleticherebbe il palato, ma questo non è un disco black-metal, e, a dirla tutta, in esso non cogliamo nemmeno quelle influenze shoegaze divinamente intrecciate alle chitarre zanzarose tipiche del black-metal, intuizione che ha reso popolari le band appena citate. Ma allora che diavolo suonano questi Soror Dolorosa?

Non altro che dark-wave, e di quella più tipica: Andy Julia, lasciato solo alla guida del suo progetto personale (che con “No More Heroes”, ultima release targata 2013, giunge alla tappa del secondo full-lenght, dato che nel 2011 usciva il primo album di inediti “Blind Scenes”, preceduto di un paio d'anni dall'Ep d'esordio “Severance”), l'Andy Julia, si diceva, non fa altro che guardarsi indietro, e più esattamente nella direzione dei gloriosi primi anni ottanta, limitandosi a rispolverare i cliché del genere con suoni nitidi ed al passo delle produzioni odierne. Non aspettiamoci quindi dei nuovi paladini del revivalismo post-punk 2.0 (che so, roba tipo Interpol e Soft Moon), poiché i i Soror Dolorosa nell'anno 2013 non ambiscono a suonare originali, o per lo meno personali, ma si limitano ad impugnare i loro strumenti con il piglio didascalico di una cover band professionista. No, non si esce dal dualismo The Cure/The Sisters of Mercy, tendenza che si nota principalmente nell'attitudine vocale di Julia, affetto da sindrome bipolare, sindrome che lo porta – con grande spontaneità, questo va detto – a rivestire le vesti di un affranto Robert Smith ed un momento dopo a calcare le orme di un tenebroso Andrew Heldritch: due mondi diversi d'intendere il dark, e nemmeno troppo conciliabili se ci si pensa bene.

La musica segue di pari passo la scia tracciata dalle evoluzioni tenorili e singhiozzanti del vocalist (anche alle tastiere, sebbene esse si ritaglino un ruolo di terzo piano nell'economia del suono della band): una solida base ritmica, composta da un bel basso sempre in evidenza ed una batteria che colpisce con la precisione di un metronomo; impeccabile base ritmica sulla quale si adagia la melodia cangiante delle chitarre, spesso divise fra ipnotici arpeggi e carezze elettriche che raramente decidono di graffiare. Tolta la scrittura (che pesca a piene mani dal repertorio delle band sopra citate, rispettivamente dalla fase “Seventeen Seconds”/”Faith” per quanto riguarda i Cure, e dai capolavori “First and Last and Always”/“Floodland” per quanto riguarda le Sorelle), il merito dei Soror Dolorosa è di approntare un sound muscolare, magnetico ed al tempo stesso elegante e raffinato, spudoratamente romantico, a tratti persino lezioso, fatto di atmosfere soffuse che a momenti amano impennarsi in passaggi maggiormente incisivi e dal succulento gusto epico (tirando in ballo un terzo pilastro dell'epopea dark britannica, i fondamentali Fields of the Nephilim”).

“Silver Square” apre le danze con il pulsare energico del basso, presto raggiunto da una batteria prima incalzante e poi irresistibile: la ruffianeria di chitarre e voci dissolve immediatamente ogni tipo di richiamo ai Joy Division (sarà evidente fin dall'inizio come non è volontà della band quella di rovistare nel torbido e ripercorrere gli strali di uno sfibrato esistenzialismo: a venire in mente, più che altro, è il pathos artificioso di un'altra band europea, spagnola questa volta, di qualche anno fa, che rispondeva al nome di Heroes del Silencio). “Sound&Death” ripercorre il medesimo schema, prendendo in prestito persino certe sfumature del Chris Isaak più melenso (tendenza rinvenibile in altri frangenti dell'album), ed è chiaro come in questa prima doppietta (creata ad hoc per prendere per la mano e coinvolgere fin dal primo istante l'ascoltatore più pigro e disattento) prevalga la componente più tellurica dei Sisters of Mercy, presto mitigata dal sentimentalismo della terza traccia “Dany”, che invece preferisce guardare dalle parti di “Disintegration”. Fra questi due poli sta in definitiva la proposta dei Soror Dolorosa, che mostrano i loro pregi (buone capacità esecutive ed interpretative) e i loro difetti (carenza assoluta di originalità) fin dalle prime cartucce sparate.

E scusate se apro una parentesi banale (banalissima), ma necessaria: ma quanto sono stati grandi i Cure! Dico davvero, al di là della retorica: quanti album belli e diversi ci hanno regalato, e quante iniezioni vitali hanno nel tempo operato all'interno del genere, aprendo le porte agli sviluppi più disparati? In un panorama in cui anche i più grandi sono divenuti leggenda per due/tre album figli di un'ispirazione presto naufragata. Si sapeva già da prima, ma è ancora più chiaro adesso ascoltando realtà come i Soror Dolorosa, che per sfornare grande musica dark non bastano solo buoni musicisti (cosa da non dare scontata all'interno dell'ambiente), ma ci vuole anche un genio (Robert Smith) e magari anche un altro creativo che si elevi al di sopra della media (Gallup): è chiaro che nel caso dei nostri Soror Dolorosa la faccenda si ferma all'attestazione del raggiungimento del primo stadio (quello dei buoni musicisti), ma non procede oltre e per questo la loro musica deve esser presa per quella che è.

Ma se sono a parlarvi di questo disco, se sono a farvi perdere del tempo per questo disco, ci sarà pure un motivo, e la ragione è che nonostante tutto i Nostri riescono a tirarci dalla loro parte ed accattivarci la loro simpatia, regalandoci delle belle sensazioni, soprattutto grazie a due o tre perlette che ci consolano della spesa fatta per acquistare la loro ultima fatica. La cupa “Hologram”, per esempio, è una plumbea ballata notturna, quasi lynchana nel suo incedere, che evoca il miglior gothic-rock che può venire in mente (non sono fuori luogo nemmeno certi accostamenti al gotico psichedelico dei Tiamat di “A Deeper Kind of Slumber”), dominato dal vocione cavernoso di Andy Julia, qui più che altrove richiamante l'ego maledetto di Andrew Heldritch. Mentre la bella “Wormhole” è un chiaro tributo allo spleen decadente del Robert Smith più romantico e sognante. La conclusiva “Exodus”, forse la traccia maggiormente dotata di personalità, materializza infine quei fulgori elettro-shoegaze che ci saremmo aspettati fin dall'inizio. La coda del brano, dolcemente sfumante in una poetica dissolvenza, lascia quindi un buon sapore in bocca e ben predispone ad un nuovo ascolto: e sono proprio i ripetuti ascolti che diraderanno i dubbi ed evidenzieranno il lato positivo della musica dei Soror Dolorosa.

Se ad un primo ascolto il giudizio potrà dunque essere distaccato se non cinicamente malevolo (diciamo un tre pallette per premiare almeno la buona fattura del prodotto), con il tempo necessario per metabolizzare questi nove (anche lunghi) brani, la valutazione complessiva non potrà che migliorare (un bell'album, in fondo, questo “No More Heroes”, musica che scorre e che sa intrattenere ed a tratti persino emozionare, quattro pallette, in definitiva?). Ma pur in questo percorso di rivalutazione, rimane la consapevolezza, anzi la certezza, che da qui non solo non passa la storia della musica, ma nemmeno lo sviluppo personale di tendenze peraltro nate e sviluppate quasi trent'anni fa. Difficilmente pertanto ci ricorderemo dei Soror Dolorosa, ma per oggi possiamo semplicemente limitarci ad ascoltare la loro buona musica senza troppo preconcetti.

Per i nostalgici più irriducibili.

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