Were you right to burn the rock star?
Tempo fa parlavamo dei Morphine, e ricordo che qualcuno (jdv? dove sei finito?) nominò i Soul Coughing per un confronto più stringente.
Balle.
I Morphine non potrebbero esistere senza la notte, così come i quattro di NY alla luce del sole vivevano la loro svogliata inquietudine. Occorre ripetere ancora una volta l’assoluta unicità di questo quartetto all’interno del pur variegato panorama americano di venticinque anni fa? Anche per questo spiegare la loro musica resta tutt'ora un’impresa titanica, tanto che loro stessi inventarono un nome al loro genere (deepslacker jazz..slacker, il pigro che non ha voglia di lavorare), e pure il buon Imasoulman ebbe a suo tempo qualche difficoltà di definizione. Sia come sia, “El Oso” – “l’orso” che ci ammicca dalla copertina – è il terzo disco della band e, lo dico senza paura di essere smentito, di gran lunga il loro migliore. Infilate le cuffie, ascoltavo le prime canzoni e mi sembrava registrato in una fonderia. Ed è proprio questo il bello: un po’ come pensare ai fratelli minori dei Kraftwerk, il Kling Klang spostato da una poco accomodante ditta di traslochi nelle fognature newyorchesi. Rolling ha una motosega al posto del basso, Misinformed e Houston picchiano su di un’incudine insistenti come un fabbro, però di quelli nervosetti e incazzosi.
Il merito va ovviamente alla fantastica e affilatissima iper-produzione del trio Optical-Tchad Blake-Pat Dillett, sarti che cuciono su misura per metà sulla sagoma di un funk ossuto e bianchissimo-post ’65, e per l’altra sul filone che dal krautrock arriva direttamente alla d’n’b, citando addirittura la tenebrosa oscurità che celava la fine del flower power – Doughty che canta St. Louise is Listening fa davvero paura eh! Inutile dire che, con un contesto del genere, Degli Antoni faccia il bello e il cattivo tempo: i suoi sample sono praticamente pazzeschi, ogni secondo tira fuori un suono diverso e mai sentito prima, e sfido chiunque ad accorgersi al primo ascolto della perizia sonora e degli infiniti dettagli nascosti dentro questi solchi.
Ma basta girarci intorno, vogliamo insomma parlare dei pezzi da novanta?? Un paio li ho già citati sopra a dire il vero, anche se è inevitabile che sia il singolone Circles – un rettangolo scaleno che ha Fa e Sol minore per lati – la pietra di paragone e la punta di diamante di canzoni che si possono persino fischiettare, o strimpellare in camera con la nostra chitarrina casomai volessimo collegare l’ampli a un ingresso della centrale di Fukushima. Poi ci sono $300 e Monster Man che altro non sono che folli corse automobilistiche lanciate a mille all’ora su quelle piste d’alta velocità che si vedono nei film, e Maybe I’ll Come Down, la ballata dub che Lee Perry non avrebbe mai avuto il coraggio di scrivere. O più giù l’estremo espressionismo sonoro di Fully Retractable, Pensacola e I Miss the Girl. Sui brevi, brevissimi testi di Doughty, e il loro stralunato e perlopiù incomprensibile surrealismo, è quasi inutile soffermarsi nello specifico; semplicemente, sono messi lì apposta per lasciare intendere molto più di quello che effettivamente venga poi detto.
Un disco perfetto, di cui mi sono innamorato dal primo ascolto, e praticamente irriproducibile dal vivo: non sorprende che di lì a poco i nostri si sarebbero sciolti, incapaci di dare un seguito a tanta caleidoscopica magnificenza. Le registrazioni di alcuni live usciti nei primi anni 2000, alcuni pregevoli peraltro, hanno effettivamente confermato che, come a suo tempo per gli Who di “Quadrophenia”, il passo fu effettivamente più lungo della gamba. Nonostante l’ispirazione e la competenza tecnica – Steinberg e Gabay erano i migliori contrabbasso/rullante che un gruppo apolide come i SC potesse permettersi – l’urgenza espressiva che troviamo qui non fu mai compiutamente trasferita sul palco. Il classico stato di grazia che dura il tempo di una stagione, e poi sfuma via, effimero come è arrivato.
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