Se una band decidesse di tenere un concerto in a bar under the sea, difficilmente suonerebbe come i belgi dEUS. Le onde sonore trasmesse attraverso un mezzo denso come l'acqua probabilmente ovatterebbero, rallenterebbero e distorcerebbero i suoni fino a fare di qualsiasi band un'imitazione dei Souled American.

Difficile però pensare che l'imitazione sarebbe anche solo paragonabile per intensità, per qualità compositiva per ricchezza e sottigliezza timbrica. Questo perchè le canzoni dei Souled American non sono state prima scritte e poi sottoposte a una cosmesi o diffrazione attraverso questa lente deformante acquatica per renderle "interessanti" o "strane".

Le canzoni di "Frozen" sono come sono in virtù del processo compositivo che le ha generate: i tre musicisti principali responsabili del progetto si mantengono con altri lavori e il loro giorno libero non coincide. Fanno di necessità virtù ed escogitano un metodo che da ostacolo si trasforma in scintilla creativa. Ognuno di loro si reca settimanalmente in studio in solitudine e aggiunge dettagli sonori ad una minima traccia di partenza. Sono come prudenti pennellate. Grappoli di note suonati con la necessità di non correre in avanti, di fare del proprio contributo, della propria aggiunta alla tela un effettivo strumento di dialogo con gli altri musicisti. Il disco cresce nel corso di due anni. Due anni nei quali questa corsa al rallentatore da vita ad una tessitura inesausta come la tela di Penelope, perchè i musicisti non si limitano a stratificare e aggiungere suoni, anzi il più delle volte sottraggono, tornano sui propri passi. E infatti all'ascolto Frozen non suona affatto come un muro di suoni sovraincisi, piuttosto come il silenzio denso e nervoso che aleggia tra tre musicisti in dialogo telepatico.

Il terreno condiviso, che permette che telepatia sia, è la memoria, la tradizione, il twang chitarristico del country, o l'arpeggio a tre dita, tecnica tipica dei suonatori di banjo. Ma il raggelato andamento compositivo si traduce in suono sfigurato. I musicisti sembrano ripiegarsi sugli strumenti in un corpo a corpo sofferto dove ogni nota viene assaporata in gocce di suono estratte come linfa dalle corde di chitarra e basso.

Ascoltare per credere la profondità cavernosa di quest'ultimo nel brano che apre e da il titolo all'album. O l'armonica che nelle pensose sospensioni di "Two of you" assume le sembianze di mugghiante sirena in un porto di nebbie. Eppure a fronte di questo rallentamento congenito i brani di Frozen presentano inusitata varietà di cadenze e ritmiche. Incedere bandistico in "Downblossom", catatonico e quasi blues in "Heyman", gospel in "Better who". La lentezza e il gelo si scoprono territori amplissimi e tutti da cartografare.

L'esplorazione ha termine con un ritorno a casa. E la casa, nell'ultimo brano intitolato "Heyday", è un brano originale così classico e cesellato che potrebbe essere un traditional, suonato con convinta adesione a stilemi passati. Non un rito sterile, ma, grazie alla rigenerante immersione nella sperimentazione dei brani precedenti, un rituale nuovamente vivificato. Il tempo, ritrovate le sue radici può tornare a scorrere. Il disgelo prefigura una nuova alba.

Naturale quindi, piuttosto che volgersi a indagare queste radici (anche se sembra imprescindibile per arrivare a Frozen partendo dall'epoca indefinita dei traditional, valicare il ponte del Ry Cooder di Paris Texas), interrogarsi sulle ombre che questo disco seppe proiettare sul suo immediato futuro.

Provate allora ad ascoltare la prima traccia e poi immergetevi nel brano Eureka di Jim O'Rourke... la stupefatta lentezza con la quale voce e chitarra assaporano le nuove aperture melodiche alle quali andava aprendosi con quel disco, dopo anni di raggelate e meravigliose sperimentazioni coi Gastr del Sol, è imbevuta del suono della voce di Chris Grigoroff e delle sonorità tutte di Frozen...e sì, se date un'occhiata alle rare interviste che O'Rourke concesse nel 1994, fresco di uscita, Frozen figura sempre tra le preferenze che egli esprime.

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