L'album di addio dei Soundgarden parte da un punto d'arrivo minimo: migliorare o quantomeno eguagliare la maturità artistica raggiunta con il precedente Superunknown, uscito quando erano i vari Pearl Jam, Nirvana, Stone Temple Pilots ed Alice in Chains a dominare le classifiche americane, e né i cloni vari né le boybands né il britpop minavano (ancora per poco) l'armonia ormai leggendaria, impuramente definita grunge. La fine di Cobain cambiò notevolmente le cose, e i Soundgarden si ritrovarono in poco tempo in un mondo che non apparteneva loro, dove né Corgan né Reznor, le due maggiori icone rock della metà degli anni '90, riuscivano a riportare il rock al centro dell'attenzione dei media, ormai orientati verso Spice Girls, Backstreet Boys e mediocri rappers neri che tutt'oggi dominano le programmazioni di Mtv.
Ripetere il successo di Superunknown era la vera mission: impossible, in queste condizioni. Il compito si prevedeva già arduo però, perché quell'album era davvero un capolavoro irripetibile, e probabilmente uno dei migliori dischi mai usciti da Seattle. Down on the Upside infatti, fallisce l'obiettivo nonostante gli entusiasmi iniziali e le discrete vendite: la critica lo bolla immediatamente come una bruttacopia del precedente lavoro, e la band, resasi conto dell'evidente calo artistico, si scioglie con poco clamore l'anno successivo, senza polemiche, ma con grande dispiacere dei fan che da più di un decennio li seguivano. In realtà, una delle vere ragioni dello scioglimento fu certamente l'ambizione di Cornell, che, convinto di poter seguire con successo le orme dell'amico Jeff Buckley, si diede alla carriera solista.
Tuttavia Down on the Upside risulta essere ben più consistente di quanto la critica ebbe a dire, e pezzi come Rhinosaur, Boot Camp, Switch Opens e Dusty fanno già capire che il disco non è solo le quattro canzoni finite sulla successiva raccolta A-Sides, anzi, c'è sostanza e passione in queste 16 canzoni, come in ogni album della band di Chris Cornell. Abbiamo un Ben Shepherd più ispirato che mai, un Matt Cameron sempre più abile compositore, e un Kim Thayil impegnatissimo a intrecciare riff e suoni noise a metà fra black sabbath e sonic youth sulle composizioni degli altri compagni d'avventura. La scaletta è forse un pò diseguale, e per giunta un paio di brani potevano essere forse tralasciati per dare maggiore continuità all'atmosfera magica che riescono a creare canzoni come l'arcinota Pretty Noose, il singolo perfetto Burden in my hand, e la sottovalutatissima Zero Chance, personalmente reputata quale migliore composizione dell'album. Se avete amato questa band, o le future evoluzioni del buon Cornell, non farete fatica ad ammettere a voi stessi che questo è un disco da portare, nascosto agli occhi dei benpensanti, sull'isola deserta... possibilmente insieme ad uno stereo ben amplificato!
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