Gli anni 90, sembra l’altro ieri, l’invasione del fenomeno “grunge”, per molti solo una moda depressa passeggera, fatta di musica “superfuzz”, testi al limite del “like suicide”, tanta rabbia, vestiti straccioni, amicizie vere. Band che si supportavano a vicenda, voglia di dare un calcio in culo alla tradizione laccata ’80es, a lustrini, brillantini, trucchi e parrucchi vari.. Storie fatte di piccoli club, serate alcooliche e tossiche, ognuna magari memorabile, da ricordare, ognuna una storia diversa, da vivere fino in fondo perché magari domani gli occhi non si apriranno, e se si apriranno, resterà tabula rasa, reset e via da capo. Altro giro, altra gente, altra musica, ma sempre distorta e malata.. Altro trip..
Girls Girls Girls, Fuck Fuck Fuck, Alcool and Drugs. Togliete il Girls, Fuck e vi rimane Alcool and Drugs. Di conseguenza non poteva che nascere un movimento improntato principalmente sul pessimismo e sul “mal de vivre” ma anche e soprattutto con un messaggio a tratti ben nascosto sulla voglia di rinascita: resistere, combattere e non arrendersi. “Down in a Hole” però ha inghiottito due dei massimi esponenti della scena di Seattle, con Kurt si è spento tutto, nel 1994, e Layne si è spento nell’indifferenza totale quasi dieci anni dopo.. I’m Alone.. and a Man in the Box, R.I.P. Junkhead.. Con Scott ci stiamo lavorando, ma per ora vince lui.
Ma questa ormai è storia, chiunque abbia frequentato l’ambiente chiamiamolo “alternative” (brr..) sa benissimo di cosa stiamo parlando, e magari si annoia a sentire cose ormai dette e ridette..
Gli anni ’90, sembra davvero l’altro ieri, Badmotorfinger, Temple of the Dog, Superunknown, Louder Than Love.. Ma se ci fermiamo un attimo a riflettere ci accorgiamo che l’altro ieri corrisponde a 20 anni fa. Altre storie, altra musica, altri atteggiamenti sono comparsi e scomparsi, e forse non ha più senso parlare di grunge o di tutto il resto che ha fatto grande Seattle quando nel 2012 hai tra le mani un album con scritto “Soundgarden – King Animal”.
Nessuno magari si aspettava una reunion del Giardino del Suono, non dopo le virate a tratti (molto) discutibili del capitano Cornell verso lidi più morbidi, dopo una parentesi altalenante “contro la macchina”.. Si pensava ormai di vederlo in classifica a MTV, in video danzerecci in mezzo a fanciulle dalle succinte vestigia. E invece no.
Tornano i Soundgarden, e magicamente torna anche la voce, non quella dei fasti di un tempo, sia chiaro, ma rispetto alla parentesi Audioslave sembra che il capitano abbia recuperato l’ugola e corde per affrontare la pazzia di un tour in Giardino.
L’album, diciamocelo, non è da far gridare al miracolo, non troverete un nuovo Superunknown, e nemmeno una briciola dei predecessori, ma una continuazione di un ultramegacriticato Down on the Upside. La direzione dei quattro cavalieri, che piaccia o meno, ormai era quella: atmosfere più intime, suoni morbidi, abbandono di quella ruvidezza metal, del punk grezzo, del brain searching super sconosciuto, per accasarsi in aperture melodiche e bordate psych-controllate di impatto.
Ormai bisogna mettersi in testa che non sia assolutamente possibile un ritorno alle origini, anzi, è da stolti averlo anche solo sperato, e se fosse venuta fuori una scimmiottata imitazione dei fasti del passato sarebbe stato al limite del ridicolo, quasi grottesco, mentre pensare a 4 signori di quasi 50 anni, con un conto in banca rassicurante (non so Ben e Kim, ma Matt e Chris sicuramente non devono guardare gli annunci di lavoro sul giornale) con la voglia ancora di ritrovarsi e far rivivere la magia di un tempo, la loro magia personale racchiusa in una sala di registrazione, e metterla su un album per condividerla con il mondo che aspettava da 15 anni anche solo una nota.. tutto questo è di una bellezza quasi commovente..
Soprattutto se si apre con un sussulto come “Been Away Too Long”, hard rock al 100%, voglia ancora di spaccare, un riff tanto semplice quanto coinvolgente, granitico al punto gusto, un drummer sempre tra i migliori al mondo in ambito rock che pesta come un treno dall’inizio alla fine, con il classico stacco sfocato liquido in stile Soundgarden nel mezzo per poi ripartire serrati until the end. Signori ci siamo, questi sono i Soundgarden del 2012 e non si può che sperar bene. Infatti arriva un’altra bordata con “Non-State Actor”, un po’ schiavi dell’audio magari, ma con quei classici stacchi in controtempo che hanno distinto il giardino dal resto in passato. Cornell è in forma, Kim tesse trame sbilenche e lisergiche in sottofondo, Matt e Ben (mi accorgo solo ora che sa suonare davvero il basso) sono una macchina assassina. Anche se l’album fosse di due soli pezzi, a me basterebbero già..
L’energia continua con i due successivi “By Croocked Steps”, in tempo amabilmente non convenzionale, e “A Thousand Days Before”. Ma è con il lento incedere del riff di “Blood on the Valley Floor” che i miei pregiudizi su un ritorno scialbo quasi si dissolvono, per me pezzo migliore dell’album.
Da qui parte la parte riflessiva, i toni rallentano, tutto diventa un po’ più cupo, mentre ascolto “Bones of Birds” in notturna cuffia solitaria qualcosa mi sale dallo stomaco e arriva al cervello, una sensazione di avvolgimento, la doppia voce di Cornell unita a questa particolare trama mi riporta per un attimo indietro.. Tempi andati che resteranno nella mia memoria per sempre, tempi di musica in ogni angolo, di esibizioni unplugged improvvisate per pochi (s)fortunati, di amicizie nate nel ritaglio di una sera e poi svanite, e di amicizie che durano ancora oggi.
La particolarità per cui amo i Soundgarden e li amerò per sempre, più di ogni altra band, è la capacità che solo loro hanno avuto di arrivare in posti della mia mente per mezzo di quei riff e invenzioni sonore, quel modo particolare di strutturare il pezzo in maniera diversa, anche se a volte solo in qualche leggera sfumatura, da ogni altro gruppo, quella voce evocativa, stentorea, potente, liberatoria a cui sarò sempre debitore.
C’è spazio anche per una parentesi di “Euphoria” con “Halfway There”, una ripresa dei toni con “Worse Dream”, per chiudere in sfumature liquide (“Eyelids Mouth”) e atmosfere tribali (“Rowing”). This is the end..
Ci sono buone idee (ma manca paurosamente la chitarra di Thayil, sotterrata dal resto), alti e bassi, pezzi trascurabili, le impressioni in realtà rimandano al discorso chiuso con Down on the Upside, dove c’era ancora qualche lampo di ispirazione, ma non era bastato alla continuazione del discorso.. Mi piace pensare “King Animal” come una ripresa da quel punto, non come la pietra su una fine definitiva, ma come un nuovo inizio. E se magari non sarà così rivedere il nome Soundgarden associato ad un nuovo album nel 2012 per me è già stato abbastanza..
Gli anni ’90, sembra l’altro ieri.. Invece siamo invecchiati un po’ tutti, e si sente..
Chiamatela come volete.
Per me il nome giusto è: Maturità...
Carico i commenti... con calma