Rugby, Inghilterra. È il 1986, e sulla scena musicale indipendente fa capolino un gruppo che negli anni a venire cambierà le sorti della musica psichedelica. Loro sono gli Spacemen 3, ma in realtà sono quattro e in sostanza sono solo due le teste pensanti della band. Peter Kember e Jason Pierce, due studenti d'arte con la passione per gli Stooges e l'eroina, le chitarre vintage e la psichedelia americana anni '60. Nel loro disco di debutto, Sound of Confusion, è facile trovare influenze ben precise, come appunto gli Stooges e i 13th Floor Elevators, mettendo in scaletta ben tre cover su sette brani complessivi.

Si passa dal baccanale chitarristico di Losing Touch With My Mind, che apre le danze su un tappeto di basso cavernoso che ricorda lo stile secco e crudo di Bill Wyman per poi passare a Hey Man, dove la voce monocorde di Pierce invoca un ritornello che sarà il preludio all'amore di Jason per il gospel, che andrà a ricoprire buona parte del sound dei futuri Spiritualized. Rollercoaster è il primo omaggio a Roky Erickson e soci, una cavalcata chitarristica dove il blues incontra lo space rock con contaminazioni raga, un vero trip ipnotico come del resto lo era anche la versione dei 13th Floor Elevators. Mary Anne è un brano dei Juicy Lucy, una sconosciuta formazione garage rock anni sessanta, e fa da tramite fra Rollercoaster e Little Doll, rilettura in chiave ipnotica dei primi Stooges. Manca la spinta erotica della voce di Iggy Pop, che qui viene sostituita degnamente da quella di Pierce, ma si distingue comunque per la direzione che i Nostri Astronauti prenderanno in The Perfect Prescription e Playing With Fire, chitarre droneggianti su accordi basilari di chiara impronta blues. Se 2:35 è una linea di blues tanto cara a Bo Diddley con tematiche eroinomani, O.D. Catastrophe è la prima di una lunga serie di composizioni minimali (che si riscontra principalmente nella penna di Pete Kember) con un accordo di Fa maggiore che viene tenuto per quasi 8 minuti, ricordando i tanto cari Velvet Underground di White Light/White Heat, dove i quattro ragazzacci di Rugby stratificano il suono ricamando feedback e ritmiche ossessive, il tutto condito da una sana, pura e alquanto rischiosa passione per le droghe.

Un disco che non è imprescindibile, ovvero si sente che qui non siamo ancora ai livelli dei due dischi successivi, ma è un ottimo avvio alla carriera di una band che avrebbe meritato sicuramente più successo di quanto purtroppo non gli è stato concesso.

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