Una fredda domenica pomeriggio di Gennaio.
Sono in giro col mio cane “Oh, guarda, c’è il mercatino dell’antiquariato. Diamo un’occhiata”
Bancarelle ovunque. Adocchio una pipa, una vecchia Parker in ottimo stato. Per chi non lo sapesse la pipe Parker altro non sono che una sottomarca delle famosa fabbrica inglese Dunhill.
Il venditore, purtroppo, lo sapeva e, visto il prezzo che mi aveva richiesto, mi sposto alla Bancarella successiva dove giacciono, un po’alla rinfusa, numerosi LP.
….Cerco ….Cerco e….Guarda un po’!
Oggi è la giornata delle sottomarche: Il primo album degli Splinter prodotto nientepopodimeno che da George Harrison ed inciso per la sua casa discografica; la Dark Horse nel 1974.
Conoscevo vagamente questo duo: “Bill Elliot e Bobby Purvis”. Sapevo che Elliot aveva inciso “God Save Oz” di John Lennon e, quindi era in “orbita Apple”.
Visto il poco prezzo richiesto lo compro e mi dirigo a casa.
Il disco è in buono stato e, la prima cosa che faccio, è “ascoltare la copertina”. Riporta il duo nella tenuta di Friar Park di Harrison e, dovessi dire, ha un po’ lo stile di Dark Horse, album quasi contemporaneo, del “quiet Beatle”.
I musicisti impiegati sono praticamente gli stessi: Klaus Voorman e Willie Weeks al basso, Jim Keltner alla batteria, Gary Wright alle tastiere, Alvin Lee alla chitarra Billy Preston alle tastere e…inoltre…una gradita sorpresa: Hari Georgeson alla chitarra, Jay Raj Harisein alle percussioni e P. Roducer all’harmonium e al moog; tre pseudonimi per il produttore George Harrison.
Un esame alla label del disco: è presente il cavallo a sette teste che rappresenta la casa discografica e l’elenco dei brani composti quasi tutti da Purvis eccetto due accreditati Purvis\Elliot.
E’ora di mettere il disco sul piatto e asoltare.
“Groovy Train” , un po’ Harrison e un po’ (molto) Badfinger piacevole e, ad un primo ascolto, non molto di più, noto che si apprezza poco a poco, ascoltandola più volte, come un tabacco francese che da il meglio di se stesso in una giornata piovosa al caldo in casa; a quel punto escono le venature beatlesiane neanche troppo di maniera.
“Drink All Day” sembra una via di mezzo tra “Sue Me Sue Your Blues” (di Harrison in “Living in the Material World”) e “I don’t care Anymore” (oscura facciata B di “Ding Dong” del 1974) anche la voce del cantante tende ad assomigliare terribilmente a quella di Harrison, ma ciò che verrà dopo…. È sconvolgente.
“China Light”; “Non è possibile!” Harrison puro: stessa voce, stesso sound. Pezzo fantastico e sognante, stesse atmosfere. Si sprofonda in quella magica atmosfera che solo George era in grado di fabbricare. Viene da pensare (forse con ragione) che se non fosse che, nel 1974, la voce di Harrison era a pezzi, sia proprio lui a cantare.
A quel punto, terminata la canzone, la riascolto più volte. Fantastica!!!
“Somebody’s City” lenta ballata in cui le voci di Elliot e Purvis sono maggiormente le loro mentre il sound e l’assolo di slide guitar ti fanno pensare diversamente
A questo punto è ora di girare il disco, cosa quasi impensabile oggi.
“Costafine Town” fù il primo 45 giri tratto dall’album e fu il brano di maggior successo in assoluto del duo. Lento e sognante, ricordo vagamente, in gioventù di averlo sentito. Fu un successo minore nelle hit parade dell’epoca. Il lavoro di produzione è accurato ed è il pezzo in cui meno si sente l’impronta del “nostro”. Bello e originale.
“The Place I Love” da il titolo all’album, vagamente country dove torna la voce “harrisoniana” e la slide guitar ed il dobro fanno la loro degna parte
“Situation Vacant” altro pezzo che, alla faccia dell’LP, ho ascoltato subito più volte chiedendomi quale fosse il ruolo del duo e perché non sia finito su qualche lavoro del produttore (o forse mi sono chiesto perché Harrison non abbia maggiormente sviluppato anche il proprio talento come produttore)
In “Elly May” è pesantemente presente il moog divertente e poco altro è il pezzo più debole dell’album.
Il disco si conclude con “Haven’t Got Time” blues american style con largo impiego dei fiati piacevole e trascinante.
Una volta ascoltato ho pensato di fare una ricerca su internet e ho scoperto che Harrison impiegò più tempo e cura a produrre questo lavoro che non il proprio contemporaneo “Dark Horse” e, dovessi dire, i risultati si vedono. Ha ragione chi dice che questo è un disco di George Harrison composto e cantato (o forse no) da altri.
Negli anni successivi Bill Elliot in un’intervista arrivò ad affermare di non essere soddisfatto del disco poiché i due erano stati, in qualche maniera, plagiati da Harrison a cui, però, riconosceva il merito di essere stato estremamente coivolgente nel lavoro di produzione
Gli Splinter incisero altri due album per la Dark Horse prodotti da Tom Scott e il contributo di Harrison si limitò ad un brano su ciascun lavoro e, purtroppo per loro, i risultati furono inferiori.
Nota di colore: Il disco è stato ascoltato fumando una Chacom Maigret (superba pipa francese) accompagnata da tabacco (altrettanto francese) Saint Claude.
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