Mi concedessi una giornata tutta per me risalendo il Grand Union Canal, o forse anche autostoppando lungo la strada statale 131 Cagliari-Sassari, sceglierei un album come questo per accompagnarmi. Così sotto le cuffie emananti note capaci di radiare o alimentare la qualità alle immagini di queste quasi immote composizioni, quali appaiono inaspettate, diverse. Ci si accorge subito queste richiedono un ascolto diverso, non troppo impegnato ma trascinanti cullati verso qualcosa di originante da quell'altra parte inaccessibile, quella che una volta fu, o che avrebbe potuto essere.
Non per niente l'opera in questione scaturì in seguito a un'incidente stradale nella quale furono coinvolti i componenti della band, sulla highway nordamericana, che seppure roteando come dentro un barattolo di latta ne uscirono illesi.
Questo come tanta della modesta collezione qui a Monte Pedraelighe, lo avevo scoperto per caso in quegli acquisti fatti con il desiderio di trovare per caso, ma anche dai limitati fondi, un seconda mano, compera a basso costo per una, due, e o al massimo tre sterline.
Da qui il lettore può dedurre già che non stiamo a parlare di mainstream, di artisti che riempiono stadi o arene.

Questi Spokane posso affermare con sicurezza, rimarranno sempre sconosciuti al vasto pubblico per la loro attinenza molto personale e di comporre questo loro folk sperimentale, creando atmosfere sonorificamente infuse di malinconico mistero per le cose, gli oggetti, e le anime contenute in questi. Un paesaggio ti vien soffiato dentro facendoci percepire la vastità che infonde la luce mostrando a occhi di chi vuol vedere i suoi infiniti aspetti.
Ma veniamo ai pezzi, a tutta quanta l'opera la loro quarta fatica Able Bodies messa insieme da Rick Alverson leader e ideatore (basso, chitarre, voce solista); Molly Kien (cello); Maggie Polk e Karl Runge (violino); Ben Swanson (vibraphone); e Courtney Bowles (batteria, voce). Una collezione di sette brani bene amalgamati e accarezzati dalla sussurrata voce di Alverson che si dice dotato di notevoli capacità poetiche compositive, impercettibile il senso delle parole nel suo cantare, per questo non meno piacevole.
Pare egli non voglia levare niente ad archi e il resto degli strumenti, se non accompagnarci compatti in un vasto percorso dove le  molteplici possibilità, mai chiare, incosciamente continuiamo a seguire. Tutto questo vagare perdura da un brano all'altro lasciando piccoli dettagli indizi, delimitandone contorni, tracciandone il limite delle forme attraverso il ritmo, e offrendoci ristoro in inconsuete melodie, prodotte alternativamente dalla corista, cello, un tichettio metallico, il vibrafono.

Un'opera che io terrei là fra Low e Grandaddy, un album che ha bisogno del suo momento, perché non tutti i giorni percorro la SS131.

Carico i commenti...  con calma