Altri occhi ci guardano, e che si riferiscano ad un semplice specchio come a qualche esoterica metafora non saprei, ma qualche giorno fa mi ci sono casualmente riaddentrato, in quei venti minuti di tramonto estivo in cui gli uccellini se la volano senza un apparente senso in mischione ai pipistrelli.

2015, una pietra da mangiare a morsi nella prolifica discografia di questi deviati compaesani per cui sfrutterei volentieri i ben noti 92 minuti di applausi. Un il dischello che sfoggia angoli da tutte le parti, sia nel suono che nella cadenza, tra movenze meccaniche che si sfilacciano e sbracciano, si fluidificano e scorrono insieme come acqua fino a diventare indistinguibili.

Incorniciato come jazz psichedelico quasi senza coordinate, sento goduria e peculiarità nella concezione del ritmo completamente asettica e desolata, su brani che diventano labirinti e si attorcigliano in cagionevoli melodie. Per come mi suona, Il labirinto affoga la testa nel brodo di cagna (beh), tra le lucide illusioni di Hyosciamus e le malsane allucinazioni della title track, poi alla fine ognuno è ognuno. Ma è stato un loro concerto ad avermi lasciato l’impressione di un jazz senza spazio e tempo seduto tra le piramidi, con tanto di tuniche, sassofono, suoni elettrici e spezie varie.

Lo ascolti oggi, sembra uscito domani e ti stupisci che sia di ieri, ma la questione del tempo è relativa, dicono. Non solo mi risuona come un ottimo stimolo per imbrattare il cielo di pensieri, ma da quando gli ho dato anche solo un padiglione dei miei due lui si è piazzato lassù, volteggiando inespressivo come in copertina nel mio reparto sbrodolate psichedeliche coi controcas. Uh.

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