Il progetto "Arrapaho" dei Quattro dell'Apocalisse targato 1983 prevede un duplice prodotto costituito da album e film, lavoro sperimentale che verrà bissato a distanza di qualche anno dal successivo "Uccelli d' Italia", parimenti bipartito, in un periodo di fertilità che avrebbe preso le mosse dagli insperati successi di hit precedenti come "Pompa" del '77 o "Tromba" dell' '80.
Stando alla felice e pur ovvia disamina del Morandini che definisce la pellicola Arrapaho "il più brutto film della storia del cinema italiano", c'è da farsi un esame di coscienza per cercare di capire se c'è un margine di salvabilità in tutto ciò che è trash; scervelliamoci quanto ci pare, alla fine la censura del buon gusto farà decedere tutti i buoni propositi denudando quella che è la cruda verità: "Arrapaho" fa proprio schifo. E non è tanto l'horror impudicitiae a dettare un consimile giudizio, quanto il semplice fatto che attraverso questo film, incredibile a pensarsi e a dirsi, non si fa giustizia agli Squallor.

Intendiamoci: gli Squallor in questo film ci recitano, soprattutto il paroliere Daniele Pace - comparsate quelle di Totò Savio e Bigazzi, Cerruti voce narrante -, ma ora per la direzione di Ippolito, ora per un particolare disamore squalloresco nei confronti della celluloide, ora per certa penosa interpretazione di attori che non fossero i quattro in persona, tutto ciò che nel film si vuole far passare per Squallor non lo è, se non in rari casi.
Con questo non si vuole certo intendere che ciò che è squalloresco è per definizione di buona qualità, però ciò che è da puntualizzare al momento è che il prodotto cinematografico non ha le stesse ispirazioni dei prodotti musicali del quartetto napoletano, sia che questi siano i lavori precedenti, sia che si tratti dell' omonimo disco.
Così la versione svogliata di un' improbabile "Berta" tra balconi di condomini e casalinghe stagionate sconfessa quella esilarante immagine che Cerruti ci aveva fornito nel pezzo del '77, mentre un troppo insinuante Pierpaolo colpisce al cuore quell'icona leggermente neonatale che solo l'effetto di microfonatura poteva rendere a meraviglia in "Famiglia Cristiana" e seguenti, cosicchè alla fine a far bella figura sono solo quei pezzi ove indirettamente campeggia la presenza degli Squallor, esibizioni come "Avida" e "O tiempo se ne va" ove le rispettive voci di Alfredo Cerruti e Totò Savio accompagnano una discreta rappresentazione scenica. Proprio questi due pezzi, congiuntamente alla title-track sono i principali hit dell' Arrapaho disco dell' '83: semplificativi del solito istrionismo cerrutiano da un lato, e del buon gusto musicale saviano dall' altro, sono pezzi che oltre a divertire lasciano un pur minimo lume di riflessione: "O tiempo se ne va /dimane nun se sa/si 'a mazza me s'arrizza/si nun te care 'a zizza nun se sa/la vita è un varieté/e 'o cazz è cumm 'o rré/e io ca so' guaglione/t'o ronco 'stu bastone sott' 'a luna puttana comm'a ttè"; la riflessione saviana è, incredibile a dirsi, tragicamente vera nella sua sconcia crudezza.
Da segnalare, di buon effetto comico, "La Guerra del Vino", "El Toro" e "Pierpaolo a Dusseldorf Bau", che riprende in uso il vecchio stratagemma della cover squalloresca: ispirato ad un brano del "Trio" dell' '82, bissa la citata "Avida", chiaramente rubata a "Private Investigations" dei Dire Straits.

Onesto il disco, irritante il film. Squallor, studio comparato su linguaggio visivo e musicale.

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