Gli Squirrel Bait sono stati una band veramente pazzesca. Una vita abbastanza breve, ma la capacità di scavare un solco lungo e profondo nella scena alternativa dei middle eighties, preparando il terreno all’avvento del grunge, del noise e di tutti quelli che nei 90 son poi passati alla cassa a riscuotere i loro crediti. “Skag Heaven”, il disco di cui vi voglio parlare, è uno di quelli che mi porterei senza dubbio sulla famosa isola deserta, insieme a Belen naturalmente. Non ho resistito alla tentazione di ritornarci sopra perché, riascoltato oggi, mi provoca le stesse sensazioni entusiastiche di 40 anni fa.
E dire che il quintetto di ragazzini da Louisville, Kentucky sembrava una barzelletta; un manipolo di studenti sbarbatelli che, appena finito di suonare, tornavano sui libri per finire la scuola superiore e non farsi urlar dietro dai genitori. Roba che Manuel Agnelli si sarebbe strappato la parrucca pur di far loro da coach. Comunque, in barba ai talent delle palle che per fortuna non c’erano, ci si accorse subito che “Le Esche per Scoiattoli” non potevano essere presi sotto gamba. Bob Mould fu uno dei primi che si rese conto dell’incredibile valore della band. Non c’entravano un cazzo l’età, gli skate e le magliette dei Replacements... l’impatto sonoro della band era semplicemente devastante. Un diluvio chitarristico di energia incontenibile guidato da David Grubbs e Brian McMahan, due nessuno che saranno presto qualcuno. Per non dire del canto “sofferto” di Peter Searcy, teso al limite della propria estensione ad inchiodare le note in modo puramente istintivo. Tanta roba. E per finire con la sezione ritmica indiavolata, il basso vagamente jazzato di Clark Johnson ed il drumming stakanovista di Ben Daughtrey, a tenere miracolosamente insieme il tutto. La somma di tali individualità finisce per fare la differenza e la Homestead, etichetta emergente nel panorama indipendente, li nota e li mette sotto contratto per l’album d’esordio. Sarà anche il loro testamento.
Prendendo spunto dalla Bibbia dell’hardcore, Zen Arcade ovviamente, gli Squirrel Bait seppero aggiornare a colpi di grancassa quel capitolo fondamentale della musica “che veniva dal Nord-Est”. Ripartendo da quei suoni “importanti” ed arricchendoli di una nuova tensione e di una capacità compositiva fuori dal comune, i ragazzi crearono il loro capolavoro. “Skag Heaven” dura solo 25 minuti e 45 secondi ma è talmente intenso che fa impallidire pure i gorilla del Burundi. E’ un pieno attacco di dissonanza e furore e non fa prigionieri.
Il disco si apre con "Kid Dynamite”, manifesto dell’album. Il ritmo è ansioso e forsennato. Racconta di una storia di strada andata male come mille altre e i Baits ci introducono senza timore al loro personale inferno di adolescenti di provincia, senza presente e senza futuro. "Virgil's Return" mantiene alta la tensione ma è con "Black Light Poster Child" che la posta in gioco si alza notevolmente. Si apre uno scenario nuovo per l’hardcore e ci si ritrova subito molto lontani sia dai Black Flag che dal suono Dischord. Qui a farla da padrone è una ricerca melodica profonda e dolente. Canzoni che diventano epiche, percorse da scosse chitarristiche impetuose ma anche da ritornelli memorizzabili, con la voce angosciata di Peter Searcy impegnata in una folle rincorsa, quasi che il resto della band l’avesse scaricato dal furgone e lui gli stesse correndo dietro. L'assalto sonoro non ha soluzione di continuità e prosegue con lo splendido “stop & go” di "Choose Yr Poison" che, in poco più di due minuti due, manda a casa tutti i Green Day con un calcione nelle chiappe. La successiva "Kick The Cat" presenta un assolo di doppia chitarra davvero sfrontato per un gruppo punk di ragazzotti del Kentucky, anche se la produzione rigorosamente “low budget” di casa Homestead non rende effettivamente giustizia alla bontà del materiale. Ma c’è il sospetto, lecito, che sia proprio questa assurda combinazione di chitarre di merda e amplificatori economici a definire la "grana unica" di quel suono. Menzione obbligata anche per la tortuosa e cupissima “Short Straw Wins” che contiene tutti i prodromi del grunge e per la granitica “Slake Train Coming”. La sorpresa più grande sta però in chiusura del disco dove va a collocarsi l’improbabile cover di Phil Ochs, quella "Tape From California" che nella versione degli Squirrel Bait diventa impressionante. Ritmo, potenza, melodia. Fedeli agli schemi del loro approccio hardcore, i ragazzi ridefiniscono senza timore l’estetica folk della canzone rendendola assolutamente omogenea alle proprie composizioni. Coraggio da vendere o nulla da perdere, non saprei. Fatto sta che, fosse stato vivo, sono sicuro che Phil ne sarebbe stato orgoglioso. Stop, fine del gioco, lo scoiattolo è in trappola. A mio parere, nessun disco di quel periodo racchiude lo spirito dell'hardcore statunitense in una forma più concentrata e perfezionata di “Skag Heaven”. Quando tutto finisce ti senti euforico ed esausto, come se avessi corso per 27 minuti intorno all’isolato inseguendo il cane che ti era scappato e sei talmente ansimante che non riesci neanche a dargli mazzate.
La breve saga degli Squirrel Bait termina qui. Scoraggiati da una critica puzzona e diffidente, che non si faceva una ragione del fatto che cinque adolescenti potessero registrare un disco di quel calibro e, nonostante gli appassionati concerti insieme a band monumentali come Husker Du, Lemonheads e Sonic Youth, la band non indugia oltre e decide di sciogliersi. Tanti saluti e i ragazzi se ne tornano a scuola a finire i loro studi mentre il rock alternativo più intransigente sale sul pullman di sola andata, dalla stazione di Minneapolis fino a Seattle, senza più passare per Louisville.
In contrasto aperto con l’idea farlocca che solo la longevità artistica possa conferire statura immortale ad una band, bisogna accettare il fatto che, come altri prima di loro, gli Squirrel Bait si siano consegnati per sempre alla storia, nello spazio brevissimo di un solo fantastico disco. Con l'uscita di “Skag Heaven”, la band si era già praticamente sciolta, dispersa in molti altri progetti musicali a venire, come Slint (Brian McMahon), Bastro/Gastr de Sol (David Grubbs e Clark Johnson) e Big Wheel (Searcy). Personalmente, avrei scambiato tutte quelle band per un solo altro album degli Squirrel Bait, ma questa è tutta un’altra storia…
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