Non è facile acquistare dischi "a scatola chiusa", ma talvolta diventa inevitabile. I rischi sono notevoli, tra i quali quello volente il presunto disco dei desideri rivelarsi una fregatura. Chiaramente. Allora perché non evitare di incappare in questa spiacevole traversia? Semplice: magari, navigando in rete, ti ritrovi tra le mani un clip di una eclatante esibizione di questa misconosciuta band di periferia, della quale nessuno sa assolutamente nulla, ed è subito love at first sight.
Oppure ti sottoponi all'ascolto involontario di un brano piuttosto promettente, mentre te la godi in un accogliente e ben riscaldato posto x, e dove a stento riesci a chiedere ad uno sconosciuto y se possa esserti d'aiuto nell'individuazione dell'apparentemente clamorosa band in sottofondo lì ad x. Insomma, ci si dà alle ricerche, vanno a buon fine e, bendàti, magari spinti dalla forza di un'insospettata one-hit-wonder, si caccia fuori il ventone, se va bene, o il centone, perché lo scempio è addirittura fuori catalogo in seguito al "sold out" delle 2 (due) copie stampate e ce lo si ritrova soltanto di seconda mano e soltanto su Amazon all'esorbitante importo in questione.
Ma veniamo al dunque. Giunge il giorno della consegna, o semplicemente rincasi a mani piene in seguito alla seduta dall'audiorivenditore di (s)fiducia. Felice come la leggendaria Pasqua del '92, con espressione da fesso ed una esilarante paresi facciale temporanea (nella fattispecie di tipo spastico, in sede muscolo orbicolare della bocca), piazzi il tuo bel dischetto sul piatto di turno, avvii la riproduzione e questo enorme pacco, invidiabile anche dal Rocco nazionale, ti si insidia dritto dritto nei ciàp.
Fortunatamente, con i St. Johnny è andata del tutto diversamente. O meglio.
Qualche tempo fa mi capitò di imbattermi nell'ascolto di questo brano e nella veduta del relativo videoclip. Fu subito... non amore, ma una decorosa cotta. Nulla di mirabolante, ma quel nonsocché di nostalgico, quell'ultima reminiscenza shoegaze nel wall of sound, quel tema pseudo-country (che di country aveva solo il cappello da cowboy di Tom Leonard) della chitarra solista e quella vocalità sfatta e zoppicante avevano già scolpito le loro partiture nella mia mente. Sicché, nonostante la stentata pacchianeria dell'inciso, feci qualche ricerca ed appuntai il titolo del disco nella famigerata lista "must-have". Mi andò bene, ché lo trovai qualche mese più tardi su eBay, tirato praticamente dietro. Al momento della consegna ero logicamente entusiasta, ma durò ben poco: una volta ascoltato il sudato disco, sembrava essere tutto fuorché ciò che avevo ascoltato, ciò che mi aspettavo, o comunque qualcosa di meritevole. Addirittura il singolo dell'innamoramento s'era imbruttito per l'occasione. Lo misi da parte per un po'. Per un po'.
E' un'opera apparentemente sconclusionata, che raggiunge un certo feeling con l'ascoltatore soltanto dopo una serie di attenti ascolti, nonostante non si tratti né di sperimentazioni, né di un disco ostico.
Le caratteristiche che in primis saltano all'orecchio sono senz'altro i solidi tappeti sonori e la vocalità atona di Bill Whitten ammiccante alla decadenza di certe melodie pop.
Sicuramente non è il solito dischetto stilisticamente catalogabile in ambiente indie-rock. Di fatto, fatta esclusione per la produzione curata dalla band stessa, indipendente non lo è per niente: venne rilasciato nientepopodiméno che per la Geffen (o meglio, DGC), nel 1994.
Nonostante l'adeguazione ai canoni più ordinari dell'etichetta e sebbene in qualche passaggio sia percepibile una sorta di fardello colmo di irrisoluzione, molti brani riescono ad essere innegabilmente convincenti e più che piacevoli: dalla aprente "A Car or a Boy?", brano che avrebbero facilmente potuto comporre anche i Pixies di "Trompe Le Monde", alle successive "I Hate Rock" e "Down the Drain", segnati dalla tipica malinconia dei piccoli dinosauri. O il succitato "I Give Up". Ma anche dal suggestivo motivetto di "Everything Is Beautiful", prontamente sostenuto da un icastico giro di basso, alla carica finale di quella "Stupid", che invece deve forse qualcosa ai Superchunk.
Insomma, in breve, si tratta di un disco solo apparentemente scostante, ma in realtà ricco di umori nostalgici e pressoché adolescenziali. Il tutto intavolato su strategici intrecci chitarristici - che trovano un giusto compromesso tra il movimento noise-rock britannico e quello low-fi americano, sviluppandolo su classica struttura alternative - e le peculiari linee melodiche sfatte, scazzate e al tempo stesso incalzanti e piacevolmente amare. Questi i punti di forza del disco.
I St. Johnny provenivano da Hartford, Connecticut. Si formarono nel 1991 ed ebbero vita breve. Il loro primo vero disco, dopo "High as a Kite" (Caroline, 1993) - che racchiudeva tutti i loro singoli fino al 1993 -, fu proprio questo "Speed is Dreaming". Un disco più che accettabile, caraterizzato anche da buoni spunti e picchi al di sopra della media. Forse soltanto un'opera per completisti. O, piuttosto, l'ennesimo disco ingiustamente trascurato, l'ennesimo suicidio del rock 'n' roll.
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