Stan Bush, “Every Beat of my Heart” (1992), LA Records
Dove eravamo rimasti? Appena reduce dai fasti dei “Transformers”, Stan Bush conferma di non tradire le consegne ricevute dalla stratosfera dei signori dell’AOR.
Le danze si aprono con “Straight to the Top”: un incedere incalzante, anche se non pienamente convincente. La strofa è migliore del ritornello, tutto sommato banalotto, buono sì e no come soundtrack di una sit com girata in uno scantinato creolo; la voce sembra quella di una checca trasmutata per partenogenesi in romantico toro da monta. Che rottura di coglioni.
“Can’t Hide Love” costituisce, semplicemente, un devastante, melodrammatico atout. Refrain da mille e una notte, arrangiamento e strofa da cardiopalma al neon, solo sincopato al fulmicotone, bridge da notte inoltrata ma sorvegliatamente pudica.
Notevolissimo anche il party rock di “It don’t get better than this”, impreziosito da un testo quasi spengleriano: “turn on the lights/this night’s gonna last forever […]/there’s no turning back/it has to be now or never/more than a moment, more than a kiss/it don’t get better than this”. Splendidi i cori ed i contrappunti lascivi delle ignote sodali negre di Stan (Spengler non avrebbe gradito), la cui interpretazione qui è da “Reader’s Digest” per melaninodeficienti. Rimandi a certe cose della Rettore e di Locasciulli, filtrati con gusto quasi rococò. Ascoltatela, quando siete in castissima compagnia della vostra bella, e le cose non vanno come dovrebbero. Vedrete: tutto tornerà a posto, e lei, dalla soffitta in cui l’ha misericordiosamente rinchiusa il padre affiliato al Fronte di Liberazione Europeo, vi saluterà con un sorriso che vale tutte le imperiture albe di Thule.
“Never Ending Love” è una nuova, lussuosa ballad con al centro il tema dell’amore, trattato senza infingimenti à la Ron Moss. Un basso funambolico introduce un mood roco e sofferto –un po’ come le evacuazioni di Zimmerman il giorno del Ringraziamento, ma con molta più grazia--, appena uscito da un take di “Laguna blu”. Il bridge è maestosamente melancolico: avrà spezzato, ne siamo ragionevolmente certi, milioni di duri dal cuore tenero, ancora oggi ricoverati all’UTIC di Malibu per extrasistole metamusicali. Noi, appena auscultatola, ci ponemmo in postura devota di fronte all’immaginetta di Stan, pronti ad un seppuku che omaggiasse in qualche modo le potenze dell’Asse.
Patinatissimo lo chic rock di “Ain’t That Worth Something”, che ci ricorda il miglior Eric Martin o certe cose di Peter Beckett. Si sente la mano di Cain. Il bridge allude magnificamente al mistero di un bacio pensato e di quattro mani che si intrecciano a disegnare un ghirigori cosmologico.
Levigatissima “Landslide”, che potrebbe insegnare i fondamentali ad una Nico qualsiasi. L’intro è immensamente catchy, il refrain à la Mr Big ricorda i temi toccati da Malick nel suo ultimo “Song to Song”. Autentico anthem per cuori incorrotti, da saggiare ripetutamente con un bel maxicucciolone sulle spiagge di Venice.
“Could This be Love” (non è quella dei Signal) è un mezzo filler, forse della Vichy. Begli echi dei patriarchi imbalsamati del blues, cui Stan rende omaggio, da ultimo uomo bianco distante ma rispettoso dell’alterità assoluta.
Con “Full Circle” ancora un presente ai padri incestuosi della tradizione americana. Su di un quieto esoscheletro blues, la pianola Bontempi itera all’infinito un tema à la “Love Boat”. Aperture ermeneutiche impressionanti nel bel mezzo di un paesaggio interiore in cui ci si può specchiare senza coprirsi le pudende, finalmente restituiti “ad integrum”. Deo gratias.
Più mossa, quasi rock’n’roll, anzi autenticamente shuffle, con begli spunti effettati, è “Every Beat of My Heart”. Avanti così, nel blu dipinto di blu di una LA ormai apocalitticamente prona alle corriere Greyhound filosofanti nella notte. Non ce n’è più per nessuno.
“The Search is Over” (non è quella dei Survivor) è un commiato sontuoso, talmente pacchiano che il giro di tastiere che fa da contrappunto al refrain pare appena uscito da una session di Aleandro Baldi. Voce incommentabilmente ieratica, solenne, maiestatica: da far tremare i polsi. Solo estroflesso e quasi pitagorico di Mike Landau, porca troia.
Noi crediamo di aver scritto la parola definitiva su questo stramaledetto album, omaggiato praticamente da nessun adepto dei salotti buoni, ma brutalmente saccheggiato da quei molti che fingono di preferirgli il primo degli Stooges o “Malleus Maleficarum” dei Pestilence: Si tratta, in verità, di una geniale accozzaglia di retrivi luoghi comuni e ricercatissime mezze verità, su un fondo estetizzante e autocompiaciuto, ad uso di ceffi estenuati dalle troppe baraonde sentimentali. Bush è infatti dotato, oltre che di adamantino talento musicale, di un gusto eccezionale per le sceneggiate FM. Egli è la perfetta realizzazione dell’ultimo uomo nicciano, inarrivabile cantore dell’estasi che attraversa il nichilismo e lo annichilisce con gran gusto: proiettando così il suo riflusso teoretico sulle benemerite fonti negre cui attinge a piene mani, in queste scalcinate operazioni a metà tra la ricostruzione sonica di un universo stratificato in mille rivoli semantici ed il plagio di côté ditirambico.
Gerarchia, onore, senso intransigente della distanza e della testimonianza fuori tempo massimo, dunque: tra le rovine, certo, ma per operare, tra le fessure della grande muraglia, una reversione di influenze e qualità arcaiche, da Gestalt anglo-aria. Tutto ciò che l’Occidente ha perduto, irrimediabilmente, in una catastrofe di cui il volto di Scalfarotto costituisce l’aspetto bohemien, lo si ritrova originalmente rielaborato in questo straordinario canto del cigno, da AOR textbook: “The answer, of course, is yes. One day the sadness will end”.
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