Stan Ridgway è il Ray Bradbury della canzone americana.
Un sottovalutato menestrello di incubi di provincia che, dal vivo, sembra un professore di storia. È un uomo da giacche di velluto a coste, leggermente polveroso: lo immagini aromatizzato di tabacco da pipa e fuoco di camino. Il suo posto ideale potrebbe essere uno di quegli adorabili, ottocenteschi club inglesi per soli uomini con poltrone comode di pelle e librerie in legno pregiato.
La sua avventura comincia negli anni ’80 con uno stranissimo progetto musicale, che fonde la new wave con il country western: i Wall of Voodoo. Ad ascoltarli oggi sono alquanto datati, batterie elettroniche e chitarroni morriconiani non sempre funzionano bene insieme… ma la sua voce, metallica e lievemente ironica, fa la differenza. Dopo il successo di “Mexican Radio” tutto finisce, Ridgway continua da solo e fa uscire una vera perla: “The big heat”. Da lì in poi, Stan si perde un po’, alternando buoni dischi a discrete ciofeche fino al 2004, anno d’uscita di “Snakebite: Blacktop Ballads and Fugitive Songs”.
In questa sorta di concept sul tema della fuga il professor Ridgway tuffa le mani nella materia che conosce meglio: la zona d’ombra del sogno americano, l’epica dei motel di periferia, dei fumetti horror da poche lire, dei drive-in abbandonati, dei perdenti in cerca di una rivincita qualunque. Una serie di luoghi narrativi molto vicini a quelli di Richard Matheson, degli episodi di “Ai confini della realtà”, del già nominato Bradbury, del miglior Stephen King, quello di “It” e “Stagioni diverse”.
C’è profumo di marshmallows e zucchero filato, nelle tracce di “Snakebite” (soprattutto nella circense “Running with the carnival”), ma dopo qualche attento ascolto l’ombra di Pennywise il clown e dei malinconici freaks circensi di Tod Browning è molto più di una sensazione.
“Crow hollow blues” e “Monster of the Id” sono sghembe e rachitiche, suonano come un luna park d’autunno, con le foglie morte che imputridiscono accanto alle giostre arrugginite. Anche quando il clima si rasserena, come in “Wake up Sally (the cops are here)” o “That big 5-0”, l’allegria è solo apparente: il testo è teso, racconta di strade statali desolate e fughe destinate alla catastrofe. Siamo a un barbecue di quartiere, tra villette a due piani tutte uguali come la casa di Paperino, lattine di birra e camicie a scacchi. La vita è bella, l’America è la terra promessa, tutto è fantastico… e allora perché stiamo urlando tutti, perché sul barbecue sta cuocendo qualcosa che non è una bistecca, perché tua moglie sta perdendo sangue dagli occhi?
Ma tu fai finta di niente, pensi che sia solo un incubo: se continui a sorridere e parlare di baseball tra poco ti sveglierai e sarà tutto come prima.
Peccato che non sia vero.
Peccato che non ci sia un tipico finale hollywoodiano dietro l’angolo, ma solo la consapevolezza di un sipario che cala (“Classic Hollywood ending”).
Peccato che la vecchia band sia finita insieme alla giovinezza e ci sia solo il tempo di una canzone per ricordarla (“Talkin’ Wall of Voodoo pt.1”).
Peccato che l’unica risposta possibile arrivi con “Throw it away”: le ombre del passato frugano nella mente e ti domandi che fine hanno fatto le persone a cui tenevi, quale prezzo hai pagato per i tuoi errori e in che punto, esattamente, la tua strada è diventata storta e sbagliata. Il ritornello, uno dei più struggenti dei cosiddetti “anni zero”, non offre nessuna speranza: via le sofferenze, via gli amori perduti, via i ricordi. Abbandona il vecchio te stesso a un angolo di strada e ricomincia da capo: “non c’è nient’altro da fare se non gettare via tutto”.
E che Dio benedica l’America.
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