Riesumato dalla polvere della soffitta insieme ad altri cd ormai consunti, mi appresto ad ascoltare un lavoro di una fantasia ed inventiva incredibile. Stanley Clarke, bassista e contrabbassista dalle doti compositive ed esecutive eccezionali, realizza nel lontano (ma mica tanto) '76 una gemma di quel microcosmo ambiguo definito "jazz-fusion", ma che in questo in questo caso incorpora, con disinvolto eclettismo, varie influenze "classiche" e "moderne", amalgamate sapientemente e con grande equilibrio.

Si parte con la title-track, un rock dapprima forse un pò troppo invadente, ma che lascia poi posto ad un'atmosfera meno tesa, bensì eterea, sulla quale il buon Stanley mette in mostra tutte le sue doti di bassista appariscente ma mai eccessivo. "Quiet Afternoon" è forse il brano più tradizionalmente jazz fusion del disco: un'onda fluttuante che va di crescendo in diminuendo, un bozzetto impressionistico ed ipnotico che ricorda nelle sonorità lo stile di Pat Metheny (che debutterà due anni dopo)..

..ma l'apparente calma lascia presto posto al funk orchestrale e sgargiante di "The Dancer", groove ripetitivo e accattivante, sul quale si stagliano inserti chitarristici e tastieristici molto wha wha. Ma anche qui la frenesia dura poco, perchè entra in sfumando un brano acustico ma psichedelico, dove ci si diletta al contrabbasso e alla chitarra acustica su un tappeto tanto stralunato quanto intenso..

...alè, due minuti e mezzo funkissimi e super-black, tesi e quasi "disco" compensano la rilassatezza del brano precedente.. E per finire, un lungo pezzo, in parte cantato, riassume le idee di fondo del disco, melodia e groove, orchestrazioni e ritmi sincopati, fraseggi solitari e iterazioni surreali, portando all'apice un album di grandissima ispirazione.

Sperimentale ma ancorato alla tradizione, funambolico sia nella tensione che nella tranquillità, è una pietra miliare: ben si inserisce nel caleodoscopico scenario musicale degli anni Settanta, una fucina di soluzioni innovative e sempre fresche.

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