Questa è non-musica. Piuttosto è profonda quiete interrotta da fischi, rumori, bisbigli, colpi di batteria dati a caso.
Gli Starfuckers partono dal nulla per costruire nulla; tutto ciò che riproducono con gli strumenti, la voce, le parole è assolutamente casuale. Manuele Giannini non canta, emette suoni che s'infrangono tra un rumore e l'altro. L'espressione artistica del gruppo è come se prendesse spunto per certi versi dal pensiero di Francesco Bacone: come il filosofo inglese intendeva abbattere i pregiudizi della mente umana affinché gli uomini potessero giungere ad una conoscenza effettiva della realtà, così gli Starfuckers abbattono ogni barriera, ogni limite posto al rock per poter creare una "musica" autentica, che non sia il frutto di un'idea passata per la mente. Difatti Giannini parla di «distruzione dell'io vs. autorappresentazione», intendendo appunto con ciò che la musica non deve essere per nulla intenzionale, ma che deve invece «comporsi da sé». Ma se Bacone demoliva al fine di costruire qualcosa di migliore, gli Starfuckers demoliscono e basta, non erigono nulla se non confusione.
"Infrantumi" è un disco per nulla ragionato, anticonvenzionale per antonomasia, talmente metafisico che sembra preannunciare il nulla eterno. Le dodici tracce che lo compongono rappresentano una cervellotica accozzaglia di frammenti sonori random a rappresentare chissà cosa. Ogni singolo brano è un'esperienza devastante. Un sintetizzatore che pulsa sinistro, una chitarra che mette note a caso, colpi di cassa e rullante inferti senza una logica ben precisa, cymbals di ogni genere (s'ode persino un china, piatto spesso dimenticato dai batteristi), strane percussioni s'intrecciano con parole appena sussurrate, quasi a volersi nascondere dietro quell'apparente caos sonoro. Sarebbe vano tentare di analizzare "Infrantumi" traccia per traccia dal punto di vista (a)musicale.
La divisione in tracce è puramente un pretesto, difatti non si riescono a scorgere reali divergenze tra un brano ed un altro se non probabilmente sul piano delle liriche, mere associazioni mentali. I testi non sembrano affatto intenzionati a esprimere qualcosa, la loro più probabile funzione è quella di ricreare altri suoni, come se le parole diventassero un ulteriore strumento, data la loro ricchezza in figure retoriche. Sono davvero efficaci infatti le allitterazioni di "Onde Corte" («io tremo di un crampo di troppo/ crudo tra le tue trame»), le assonanze di "Colei Con Cui" («iniziato e poi interrotto/ appiccicato addosso»), le sinestesie di "Di Marmo" («rumori spenti», «secondi asciutti»). Curioso è il minutaggio: nessun brano supera i cinque minuti di durata, quasi a voler paradossalmente rispettare almeno un canone del mainstream rock.
Con questo disco insomma gli Starfuckers mandano letteralmente in frantumi tutto ciò che compone la struttura di una canzone (lo stesso Giannini affermò di rifiutare il concetto di musica come struttura): armonia, melodia, sezione ritmica e liriche vengono dunque frammentate, atomizzate, quasi operassero una sorta di modulazione del silenzio.
Forse la loro ricerca musicale risiede per l'appunto in questo, nello spezzare il silenzio, ma alla fine è inevitabile chiedersi il perché.
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