Spegnete tutte le luci della vostra stanza, accendete qualche candela profumata, e mettetevi comodi all'ascolto del disco. Cinque misconosciuti musicisti inglesi (il cantante Dave Morris, il flautista e sassofonista John Challenger, il chitarrista Terry Williams, il bassista Jeff Watts e il batterista Chris Martin), sui quali si confessa la totale mancanza di qualsivoglia informazione, incidono nel 1971 il disco in questione, che sarà pubblicato solo 4 anni più tardi.
La splendida copertina dà subito qualche indizio sui contenuti del disco: è un insolito heavy prog con spezie di word music e psichedelia (se immaginate un miscuglio tra Jade Warrior, Led Zeppelin e Black Sabbath avrete una buona idea di cosa si tratta), molto vario e ricco di repentini cambi di tempo e atmosfera. Registrazione e produzione non sono certamente il meglio disponibile all'epoca e a tratti utilizzano qualche trovata poco più che artigianale ma efficace (ad esempio le parti di flauto registrate nelle toilette degli studios: sembra incredibile ma danno quel qualcosa in più allo strumento, grazie alla forte eco che fa quasi sembrare che si tratti di uno strumento in bambù), ma non inficiano assolutamente il risultato finale.
La chitarra di Williams, vagante fra hard, psichedelia ed esotismi, è la vera spina dorsale della band, mai banale o invadente, e non si concede mai a momenti di virtuosismo fine a sé stesso tipici dell'epoca, ma è sempre e solo al servizio dei pezzi, e sopperisce alla mancanza delle tastiere (tranne che in due pezzi, ove è presente un pianoforte suonato da Morris) creando, oltre al consueto muro di note, atmosfere magiche e sognanti. Atmosfere sulle quali Challenger, fiatista più vicino alla world music che al jazz vero e proprio, dà il meglio di sé, preferendo appropriatamente il flauto durante le parti più sognanti e il sax in quelle più hard. La voce flessibile e cristallina di Dave Morris, anche pianista, come già accennato, in un paio di brani, corona il tutto, sempre gradevole e mai fuori posto. Il basso potente, preciso e alle volte fantasioso di Watts e il duttile drumming di Martin assicurano una base ritmica sempre adeguata ai pezzi, senza una sola stonatura in tutti i 42 minuti del disco.
I quasi dieci minuti della title track racchiudono tutta l'arte del gruppo: dopo un inizio tribaleggiante ed etereo guidato dal flauto, il brano muta repentinamente verso una serie di riff decisamente hard, sul quale sax e chitarra improvvisano con gusto, per poi tornare al tema iniziale. Il tutto impreziosito dall'ottima prova vocale di Morris e tenuto assieme dalla ritmica, che non perde un solo colpo durante il lungo viaggio. Il resto si snoda tra il meraviglioso riff hard con forti spezie mediorientali dell'opener "Blood Runs Deep", la ballad "Turn The Page Over", uno dei due brani con Morris al piano (il brano più canonico dell'album, comunque mai mieloso o banale), l'hard sabbathiano di "Treadmill", introdotto dagli insoliti vocalizzi da muezzin del cantante, e "Har Fleur" il breve assolo di flauto conclusivo.
Vivamente raccomandato ad ogni appassionato del progressive rock anni 70 sconfinante con l'hard rock (il paragone più calzante è quello coi primi Jade Warrior), un piccolo capolavoro nascosto affossato dall'affollamento del mercato di allora e dal considerevole ritardo nell'uscita del disco.
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