1977: anno storico per la musica moderna, con il punk e la sua "rivoluzione", tutta tesa a darci un taglio coi rigurgiti di un decennio eccessivamente 'prog'; rivoluzione politico-musicale tanto importante quanto fulminea (praticamente coevo ne è il superamento - si pensi all'opera prima dei Talking Heads, che con altre gemme del periodo apriva già la strada alla stagione della new wave). Anno che prelude inoltre ad un altro grande boom, quello della disco music e dei suoi numeri da capogiro (gli incassi di "Saturday Night Fever" sono solo una fetta della torta spartita da tanti artisti - molti dei quali black - protagonisti del "disco inferno").
In mezzo a tanto trambusto ideologico-artistico, mentre il rock si difende a denti stretti da chi ne inneggia la prematura morte (il più strenuo monito a resistere sarà il "Rock 'n' roll will never die" proferito da Neil Young in "My My, Hey Hey"), appare arduo rintracciare il cromosoma genetico di una perla rara come il sesto disco degli Steely Dan, "Aja". Forse perché il distacco dal rock degli esordi e dal rock tout court si era già consumato - per la formazione ora ridotta a duo - all'altezza della terza, acclamata prova, "Pretzel Logic". Quel disco non aveva solo partorito uno dei loro più grandi successi pop ("Rikki Don't Loose That Number"), ma era stato una boccata d'aria fresca per chi già nel 1974 percepiva il richiamo di un modo più 'free' di fare musica. Un percorso, quello della coppia Becker-Fagen, che porterà ad opere sempre più perfette, dal livello artistico a tratti ineguagliato per l'epoca (percorso accostabile a quello - simile per tempi di maturazione, scelte ed esiti stilistico-formali - di Joni Mitchell): "Pretzel Logic", "Katy Lied", "The Royal Scam" ed "Aja" sono l'orgoglio di un decennio che dà alla luce una "rivolta" sottile ma di portata non minore di quella punk. "Aja", in particolare, è la summa e il vertice di un'impressionante abilità di fondere con creatività, ironia, classe, tutto quello che di meglio gli anni Settanta stavano lasciando sul piatto.
La trama, il filo rosso che lega le sue composizioni è la filosofia della nuova fusion (e come potrebbe essere altrimenti, data la schiera di giganteschi session men ingaggiati dai nostri per accostarli nella loro avventura?), ma il disco è una piacevole rivoluzione anche per il pop ("Peg" e "Deacon Blues", in questo senso, sono inarrivati esempi di crossover) e il funky fa capolino là dove nessuno se lo aspetterebbe (la ritmica della splendida "Josie"). Il resto è puro delirio creativo, con performance altissime sia del duo (amabile la chitarra di Becker in "Home At Last") sia dei prestigiosi compagni di strada (in primis, l'immortale assolo di batteria di Steve Gadd a chiusura della "title-track"). "Aja", come pochi altri dischi del suo periodo, è un dono di eleganza ai posteri, un'opera monumentale per compiutezza formale e maturità artistica, uno scrigno colmo di gioielli, fonte inesauribile di stimoli ed ispirazione per gli artisti a venire.
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