In questo secondo disco (1973) dei newyorchesi Steely Dan suona e canta la solita frotta di gente, come è tipico dei loro progetti. Al tempo comunque esisteva ancora un nucleo classico di gruppo, che si esibiva regolarmente dal vivo come sestetto, presto ridotto a quintetto dopo la decisione di rinunciare all'apporto del cantante di ruolo David Palmer: troppo più incisiva, affascinante e adatta ai corrosivi testi in repertorio la voce del tastierista Donald Fagen.
Insieme a quel "Katy Lied" che uscirà un paio d'anni dopo come quarta opera, "Countdown..." è il disco meno riuscito di carriera, un po' affrettato sulla spinta del grande successo dell'esordio "Can't Buy A Thrill" e del poco tempo a disposizione a causa dell'allora intensissima attività dal vivo. I due boss del gruppo, il sunnominato Fagen e il bassista Walter Becker, sapranno trovare drastico rimedio a ciò a partire già dal seguente e terzo lavoro "Preztel Logic": niente più concerti per i successivi vent'anni (!) e tutti felicemente sepolti vivi in studio, a cesellare all'inverosimile composizioni, testi, suoni, arrangiamenti, esecuzioni e missaggi.
Essendoci in ballo gli Steely Dan, anche il loro disco relativamente meno curato e riuscito contiene grandi canzoni. Ad esempio quella subito all'inizio "Bodhisattva", dove l'irrispettosa, pressante invocazione ad un santone buddista da parte di un tizio che ha il problema di... vendere casa (!) è resa ad un ritmo altrettanto pressante e da accordi martellanti che poi si espandono nelle puntuali, caratteristiche e impagabili aperture armoniche di sapore jazz che rendono unica la loro musica. Al centro del brano il chitarrista Denny Dias esegue un mirabile assolo, molto alto nella considerazione di chi suona ed ama questo strumento: il barbuto Denny be-boppa a tutto spiano e con agilità fra gli inusuali cambi di accordo ed i risoluti stacchi ritmici dei compagni, tenendo ben alti per tutto il tempo efficacia e interesse delle note che prende, per poi ripassare la palla a Fagen per un'altra strofa ed infine al collega Jeff Baxter per un secondo assolo finale (non così brillante come il suo).
"Razor Boy" è risolta a contrasto con un dondolante ritmo caraibico ed inserti di vibrafono e di pedal steel guitar, la chitarra country di cui Baxter è maestro. "The Boston Rag" che segue è invece un mid-tempo risolutamente rock, i cui pochi e rigidi accordi suonano assai insoliti per questo raffinato gruppo dalle ricercatissime progressioni armoniche. Notevole l'assolo di chitarra (nuovamente del baffuto Baxter) sopra i secchi accordi pianistici di Fagen.
Il jazz torna ad innervare il tessuto armonico e a sorprendere l'ascoltatore con ricercate aperture melodiche nell'ottima e abbondante (sette minuti) "Your Gold Teeth", un jazz blues dominato in lungo e in largo da un entusiasmante piano elettrico ricco di gustosi fuori tono.
La seconda parte dell'album svaria nell'ostinato funky urbano di "Show Biz Kids", dal groove molto newyorchese, si potrebbe dire pre-hip hop, dunque incredibilmente avanti per quei tempi. Segue il pezzo forse più noto dell'album, la mitica "My Old School" ispirata da certe, non del tutto chiare, disavventure universitarie di Fagen e Becker: i testi degli Steely Dan sono sempre fantastici, solo che per gustarseli è praticamente indispensabile essere nati e vissuti negli USA, non c'è verso infatti di comprendere appieno la pletora di riferimenti culturali, popolari, storici, di cronaca, i modi di dire e i doppi sensi che costellano le loro liriche, senza farsi aiutare da un americano con ottimo livello di scolarizzazione. Accessibile a chiunque invece è il grande feeling di Denny Dias sul suo strumento, che qui dialoga e si infila nelle trame della ritmica in maniera sublime, in quello che è senz'altro il suo più celebre assolo di carriera.
La countryssima "Pearl Of The Quarter" e l'oscura "King Of The World" vanno a chiudere un po' in sordina l'album, raccontando oblique vicende su personaggi di New Orleans e di altre realtà sudiste, nello stile disincantato e cinico proprio degli Steely Dan, adorabile gruppo-spugna che è stato capace di creare un pop tutto suo, pescando dal jazz, dal soul, dal funky, dal rock, dal folk in uguale percentuale e usandoli per raccontare memorabili, acidule storie di varia umanità.
Carico i commenti... con calma