A volte i giornali ci azzeccano proprio.

Ricordo qualche anno fa, ormai non pochi, quando incominciò la moda, che allora a molti – me compreso - sembrò cretina, dei regalini di tutti i tipi allegati a quotidiani, settimanali e riviste varie. Partirono coi libri, seguirono vhs e dischi. Pian pianino capimmo che tutto sommato era un buon mezzo di divulgazione e che, in questo modo, molta gente che non avrebbe mai letto un libro di Pavese, le poesie di Montale o visto un film di Wenders, magari ci sarebbe incappata per sbaglio, distrazione o per la semplice moda di prendere tutte le uscite di una collana. Così può capitare, oggi, a qualcuno, d’essersi accorto che esiste un grandissimo jazz italiano, che è ormai diventato maestro al pari di quello d’oltreoceano, avendo proprio nulla da invidiare, e non essendo più colonizzato in alcun modo, ma semmai certamente onorante quei modelli che non devono essere imitati pedissequamente ma che invece devono essere omaggiati e tenuti sempre presente.

Qui parliamo della collana del jazz italiano registrata alla Casa del Jazz di Roma, prontamente prodotta e stampata e mandata in edicola. Tra gli altri sono stati pubblicati nomi come Rava, Fresu, Marcotulli, Gatto, ecc… Ma adesso parliamo di Stefano Bollani, uno dei migliori pianisti italiani in assoluto e certamente uno dei tre da me preferiti (per quel poco che conta, ovvio). Bollani è capace di vivere il jazz con amore, sentimento, anima senza filtri, ma senza quella drammaticità e seriosità che spesso, a proposito o no, caratterizza le “jazz life”, sia quelle realmente storiche e importanti che altre più trascurabili. Sì, perché purtroppo nel jazz, tanto in chi lo fa quanto in chi lo ascolta, c’è un sacco di gente che non è, ma “ci fa”. Chi ama veramente questo genere di musica lo sa, perché certe facce le si vede, su e giù dal palco, e si sa che le facce parlano. E non tutte dicono cose belle, o vere. La faccia di Bollani è una bella faccia, di una persona simpatica, serena e umile. Assolutamente priva dell’inutile divismo che abita la mente e l’anima di molti personaggi pubblici del nostro Povero Paese. Insomma: se vedi di fianco Bollani e una velina qualunque, al di là di ogni considerazione estetica, quella con il complesso del divismo è sicuramente la velina, ovvero quella che ha avuto un po’ di fortuna nei geni, ed il resto son palestre e diete. Non certo il pianista jazz, che s’è fatto un culo tanto, divertendosi, spesso probabilmente smadonnando, ma mai facendotelo pesare. E, come dicevo, io di Bollani ho sempre trovato geniale e gradevolissimo il modo di affrontare il jazz: appassionato, senza filtri stupidi e senza dogmi pseudoreligiosi. Ma con un fraseggio assolutamente perfetto, mai banale o “già sentito”. Con una quantità inversamente proporzionale di anima e retorica. Se una canzone gli piace, la interpreta. Io, personalmente, a Valenza, con lo stesso trio di queste registrazioni, gli ho sentito suonare un’incredibile “Mi ritorni in mente” di Battisti, seguita da una goliardica “Tico Tico”, a tempo spezzato e spesso reso dispari, per la disperazione divertita dei due compagni di viaggio.

In questo disco, con la stessa ispirazione e lo stesso progetto di fondo, i tre affrontano alcuni temi di Bollani (“Eravamo un manipolo di eroi” e “Elena e il suo violino”) un paio di standards (“All The Things YouAre” e “Moonlight Serenade”), un'intepretazione incredibile, fedele e interessantissima di “Morph TheCat” di Donald Fagen, che allora era uscito da pochi giorni, e si vede che Bollani l’aveva velocemente comprato, apprezzato e assimilato assieme ai due compari, Walter Paoli alla batteria e il sempre sublime Ares Tavolazzi al contrabbasso, ovvero il basso che per anni ha accostato alla carriera jazzistica quella di accompagnatore fisso di Guccini e della sua band di incrollabili. A chiudere il concerto un’inedita, anzi: una doppia inedita. Anzi ancora: un’inedita/perfetto falso d’autore, che descrive benissimo lo spirito bollaniano: “Copacabana”, finta canzone contiana, più vera del vero, compresa la voce del pianista, che è una fotocopia divertentissima del miglior Paolo Conte. Il clima contiano è perfetto e l’omaggio (stranamente raro in ambiente jazzistico, se ci si pensa bene) al cantautore astigiano apprezzatissimo. Un’ultima ma sentita lode va alla Casa del Jazz, a chi l’ha pensata (prendere un’immobile, bellissimo, alla malavita e trasformarlo nel paradiso del Jazz è cosa fin troppo bella per esser vera…), a chi ha pensato a questo progetto ed a chi l’ha realizzato. Come vedete non faccio nomi, che sennò si dice che qui si fa politica.

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