La voce, il più antico degli strumenti musicali, apre questo album di Stephan Micus: una voce nuda, senza accompagnamento strumentale, che intona un canto senza parole, sillabe di suono, e si fa presto affiancare dal timbro arcaico di sei dulcimer suonati con i martelletti e dalle tristi melodie di un nay, l'antico flauto della tradizione mediorientale. Comincia con questi primi 8 minuti il viaggio di "Ocean", una sorta di percorso sapienziale tra i suoni preziosi e riservati di questo originalissimo musicista tedesco.
Uscito per la ECM nel 1986, composto e suonato interamente da Micus, "Ocean" si divide in quattro parti: dopo la prima, in apertura, ecco il lungo episodio (19 minuti) della seconda parte: qui l'introduzione è affidata allo sho, uno strumento giapponese ad ancia il cui timbro ricorda quello della fisarmonica, e allo shakuhachi, un flauto di bambù, anch'esso giapponese; dopo otto minuti entrano le sonorità metalliche di tre cetre bavaresi alternate a due dulcimer suonati con i martelletti: e si alternano, questi strumenti carichi di fascino, alle melodie del flauto di bambù, rubandosi la scena a vicenda, conquistando il primo piano per poi tornare nelle retrovie.
Ancora tre dulcimer e uno shakuhachi nella terza parte, altro lungo brano (15 minuti) dove l'introduzione è più pacata e rarefatta, e dove bisogna attendere sei minuti prima che i dulcimer disegnino un tema melodico molto caratteristico e riconoscibile, costituito da una stessa scala pentatonica ascendente e poi discendente, quindi traslata di un tono, su cui il flauto svetta con le sue figurazioni melodiche.
La chiusura, infine, i 7 minuti per sho solo della quarta parte: qui lo strumento ad ancia giapponese è protagonista assoluto, genera fasce di suono di maggiore o minore densità ma pressoché continue: un drone acustico, creato soffiando dentro questo strumento che, si narra, imita il richiamo della fenice.
Richiede un certo abbandono questa musica dolcissima e incantatoria. Ha il merito di riportare alla luce sonorità antiche, con cui abbiamo perso ogni consuetudine ma che non sono mai davvero scomparse, forse soltanto sovrastate dal frastuono che deturpa i nostri orizzonti sonori.
E nonostante il fatto che quest'album sia intitolato "Ocean", non si sente mai il rumore del mare. Stephan Micus è un musicista troppo avveduto per cedere a banali effetti onomatopeici: l'oceano che egli ha in mente non è fatto d'acqua, ma di suoni.
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