Vi è mai capitati di stare un giorno intero da soli in un deserto? A me si e la cronaca è presto fatta: dapprima migliaia di pensieri ti affollano la mente per le prime 4/5 ore tra fobie, risposte razionali, impeti di disperazione, botte di positività e veri e propri attacchi di panico. Poi, come per incanto, il proprio subconscio trova una linea, una direzione, giusta o sbagliata che sia. La mente si aquieta, il respiro si fa solenne, i gesti rallentano aquisendo maggior fermezza, esce la parte istintiva e animale e di colpo le risposte sopraggioungono dal profondo in un unicum armonico quasi zen, i mistici parlano del 6° Chakra in contato col Tutto.
Stephan Micus, eclettico polistrumentista al suo 12° album (!!), deve essersi perso a sua volta in un deserto perchè i 9 pezzi racchiusi in quest'album sembrano essere composti dalla 5° ora in poi, tale è la serenità e il senso armonico che pervade l'intero album. Un disco profondo e arcaico, che affronta in maniera "leggera" e palpabile le sonorità primitive e ataviche dell'Uomo inteso come Essere Umano. Non a caso gran protagonista del progetto "The Graden of Mirrors" sono le voci e l'abile e sapiente uso dei pochi, pochissimi strumenti per li più sconosciuti (o quasi), che suonano come la sabbia che si infrange su una roccia o il vento che si infiltra tra le foglie di una palma isolata. Un disco suonato da strumenti tradizionali perlopiù africani, giapponesi, irlandesi, egiziani o di origine semi-sconosciuta, probabilmente gli stessi usati dalle tribù primitive che abitarono il pianeta Terra migliaia di anni fa.
Descrivere le "canzoni" è opera pressochè titanica quanto probabilmente inutile in quanto è l'intero progetto così come è concepito che ci trasporta in una dimensione spazio-temporale che non è, non può essere la nostra. Siamo prossimi alle prime civiltà dell'Homo Sapiens, siamo davanti a sonorità che indagano lente e profonde nella parte più nascosta e segreta delle nostre viscere, del nostro passato, delle innumerevoli vite che abbiamo vissuto (per chi crede nella reincarnazione). Ci sono pezzi come "Earth" dove il canto si fa preghiera corale, una sorta di redenzione o invocazione di buon auspicio, in una lingua a noi oscura ma non per questo meno densa di significati. Il pezzo seguente "Passing Cloud" col suo lento incedere ci fa scoprire il suono di un meraviglioso strumento a fiato chiamato "shakuhachi", una sorta di canna di bambù, immagino, dal sapore evocativo e struggente. "Violeta" col suo incalzare ipnotico e rituale con una bellissima polifonia vocale di tre armonie che si integrano assieme dando al brano un velo mistico e trascendentale.
Ma mi fermo qui con le descrizioni dei pezzi, perchè solo il rileggerle capisco di togliere il senso ultimo delle composizioni e di rendere solo il 5% di quello che veramente comunicano questi brani che a mio avviso sono di una bellezza insopportabile. In certi casi (o mi verrebbe da aggiungere "nella maggioranza dei casi") troppe parole non servono, anzi, peggiorano. È Stephan Micus stesso che, con questo album, sembra volerci "dire" questo tant'è che, all'interno, non sono riportati i testi del cantato (o le traduzioni visto la lingua impossibile) ma, udite udite, la descrizione dei singoli strumenti: la loro storia, il loro impiego negli anni, come se i "veri protagonisti" fossero loro e Stephan "il mezzo": come se il messaggio fosse semplicemente questo, nulla di più.
Lo consiglierei, una volta soltanto, ai metallari convinti, ai dark impenitenti, ai rockettari irriducibili, a quelli che albergano nel loro "Piccolo Mondo Antico" poco consapevoli che esistono Altre Vie, Altri Mondi, Altre Possibilità (a qualsiasi livello si intendano) che varrebbe la pena, magari per una volta, non dico "esplorare" ma almeno "annusare". Per tutti gli altri, 50 minuti di elevata spiritualità in forma di musica.
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